Giulio Busi, Il Sole 24 Ore 29/8/2010, 29 agosto 2010
«SARÒ IL FÜHRER DEL PENSIERO» - L’
errore di un grande uomo è per forza un grande errore? Se il protagonista è uno dei più influenti filosofi del Novecento, e se l’"errore" è l’aver legittimato col proprio prestigio intellettuale la presa di potere nazista, è inevitabile che di una tale colpa si faccia per lo meno un gran parlare.
Basta incastonare nella magica finestra del motore di ricerca le parole Heidegger - Nazism per ottenere oltre trecentomila risultati. Ancor meglio, si fa per dire, va con la coppia Heidegger - Hitler, che produce quattrocentomila documenti. In questo girone infernale di accuse, difese e salomoniche assoluzioni, un libro in più o in meno potrebbe sembrare poca cosa, ma le quasi ottocento pagine, appena uscite per Fischer a Francoforte, hanno l’ambizione di mettere in chiaro una volta per tutte i confini e i contenuti del "caso Heidegger".
Holger Zaborowski è membro del comitato scientifico dell’edizione completa dell’epistolario heideggeriano ed è per di più un vero topo d’archivio. Con scrupolo teutonico ha setacciato migliaia di fonti edite e inedite, perlustrando non solo il lascito del filosofo conservato a Marbach, ma anche le edizioni che negli ultimi anni hanno notevolmente arricchito il ponderoso corpus del grafomane Heidegger.
Quest’ampiezza documentaria è senz’altro un decisivo passo avanti rispetto agli studi ormai classici sull’argomento – come Ott, Farías o Nolte, usciti tra gli anni Ottanta e Novanta –e permette di rileggereil rapporto di Heidegger col nazismo nel suo contesto originario, ovvero l’università. Per il filosofo, che veniva da una famiglia piccolo borghese della Svevia, la carriera accademica rappresentò un vero sogno di promozione sociale, ma la fama raggiunta con Essere e tempo , nel 1927, e la cattedra a Friburgo, ottenuta nel 1928 grazie al suo maestro Husserl, non bastavano all’ancor giovane Heidegger. Dai documenti riesaminati da Zaborowsky è evidente che, dopo la presa di potere di Hitler, nel febbraio del 1933, il filosofo pensò che fosse giunta la sua grande occasione. Il socialdemocratico Wilhelm von Möllendorff, appena nominato rettore, fu costretto alle dimissioni e il corpo accademico, di orientamento in prevalenza conservatore ma non nazista, pensò di affidarsi proprio a Heidegger, nella convinzione che potesse difendere l’autonomia dell’istituzione, pur tenendo a bada il nuovo regime.
Vale la pena di ricordare che fu proprio von Möllendorff, vicino di casa di Heidegger, a proporlo per la carica. Se i professori pensavano di giocare d’astuzia, Heidegger voleva affermare innanzitutto se stesso. Indubbiamente affascinato dalla personalità del Führer, aspirava a diventare Führer del mondo dello spirito, non solo a Friburgo (dove venne eletto quasi all’unanimità, benché senza i voti dei professori ebrei già espulsi), ma in tutta la Germania. Il progetto sembrò riuscire e, grazie alla riforma nazista dell’università, cui egli stesso collaborò attivamente, nell’ottobre del 1933 fu effettivamente innalzato al ruolo di Führer dell’ateneo, con poteri quasi illimitati. «Finis universitatum –aveva annotato il prorettore Sauer nel suo diario – e ci ha inguaiati così quel pazzo di Heidegger, che avevamo eletto rettore perché ci portasse una nuova spiritualità accademica». La reazione dei colleghi non si fece attendere, e nel giro di pochi mesi Heidegger, sempre più isolato, fu costretto alle dimissioni. Secondo un testimone,l’insediamento del suo successore sembrò il funerale di un suicida, giacché il fallimento del filosofo era sulla bocca di tutti, mentre lui evitò con cura di farsi vedere. Consuete beghe universitarie, si potrebbe dire, se non fosse che nel breve periodo in cui fu in carica, Heidegger trovò modo di intervenire pubblicamente sia nel suo discorso d’insediamento sia in una serie di interventi pubblici, per «guadagnare il mondo delle persone colte e degli studiosi al nuovo spirito nazional-politico; una lotta davvero non facile », come si espresse egli stesso in un telegramma del 9 maggio 1933 al Ministero.
Dopo il 1945, quando fu costretto a giustificarsi, Heidegger sostenne che le sue dimissioni erano state causate dalla disillusione, e che dal 1934 in poi si era ritirato in un dignitoso silenzio. Ma tutto quello che si vien ora pubblicando dimostra invece che il naufragio delle ambizioni personali non gli fece perdere fiducia, per lo meno nella missione storica di Hitler. Certo, lo scempio che il nazismo stava facendo della vita culturale tedesca era sempre più evidente.In una letterascritta allostorico dell’arte Kurt Bauch e inserita nell’epistolario che appare pure in questi giorni, il filosofo, che si era dimesso da rettore da pochi mesi, si lamenta del vuoto intellettuale. Ma anche questa è una lamentela ben poco edificante. Per ironia della sorte – o forse per contrappasso – ad ascoltare Heidegger andava un pubblico eterogeneo, da lui definito con disprezzo di «ebrei sbandati, mezzi ebrei, o falliti, gesuiti o neri in abiti secolari»: nessuna traccia di quella nuova generazione di giovani di genio, pronti a lavorare per il nazismo, che sarebbe stato così desideroso di educare.
«Chi pensa in grande, deve pur sbagliare in grande», trovò il modo di annotare Heidegger nel 1951, aggiungendo poi, in una nota manoscritta, che l’affermazione non andava presa«in senso personale»,ma si riferiva«all’errore che governa l’essenza della verità, e a cui è sottomesso ogni pensiero che segua l’ingiunzione ( dell’essere) ». Troppo, o troppo poco, per farci dimenticare quanto meschini possano essere gli errori dei grandi uomini.