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 2010  agosto 29 Domenica calendario

TEMPESTA POPULISTA IN UN MILIONE DI TAZZE DA TÈ

Fino a qualche tempo fa si poteva ridere e scherzare sui Tea Party, l’ambiguo movimento liberista, libertario e conservatore, ma con toni infelici di estremismo, che sembra aver colto di sorpresa l’establishment politico di Washington. I commentatori e i politici lo liquidavano come una frangia radicale, un fenomeno di poco conto, minoranza con venature razziste. Ma le critiche non ne hanno fermato la crescita.
La manifestazione di ieri al Lincoln Memorial sul National Mall della capitale americana, organizzata dal conduttore militante di Fox News, Glenn Beck, con qualche malizia nel luogo e nell’anniversario del nobile I have a dream di Martin Luther King,
ha confermato anche fisicamente che il movimento che si batte contro le tasse e per la fine dell’intervento pubblico nella vita sociale ed economica del paese è diventato un player nella politica americana.
Reaganismo estremo (il vecchio presidente in realtà non toccò lo stato sociale e, semmai, allargò la spesa) e individualismo di frontiera non sono più posizione minoritaria, anche grazie all’imitazione delle tecniche di organizzazione sociale della sinistra radicale dettate negli anni Settanta da Saul Alinski,ispiratore dell’impegno politico di Barack Obama e di Hillary Clinton. Non è un caso che nelle classifiche dei libri più venduti su Amazon siano saliti sia la saga antistatalista di Ayn Rand sia il manuale di regole per i radicali di Alinski.
La carica populista dei Tea Party ha travolto innanzitutto il Partito repubblicano. Alle primarie di questi mesi, in vista delle elezioni di metà mandato del 2 novembre, i candidati sostenuti da questa ribellione dal basso, che si atteggia a quella dei coloni di Boston contro le tasse di sua maestà britannica nel 1773, hanno molto spesso sconfitto i prediletti dei vertici del partito.
Ma il fenomeno Tea Party non è soltanto questione interna al mondo conservatore, anche se sembra aver cambiato i connotati della destra americana da movimento impegnato in una guerra culturale religiosa a una guerriglia liberista e libertaria ( l’omosessualità di Ken Mehlman, l’artefice della rielezione di Bush nel 2004, non ha sconvolto nessuno in tempi in cui ci si accende solo per tasse, spesa pubblica e deficit). Il fenomeno Tea Party riguarda tutti. A cominciare da Barack Obama, il presidente che sembra non aver ancora trovato la chiave, i toni e le ricette per unificare il paese nella crisi, far ripartire l’economia e assicurare la sicurezza sociale ai concittadini. Il Tea Party è simbolo dell’affanno dei consensi del presidente.
Gli americani imbracciano spesso i forconi della protesta, come in una versione aggiornata del celebre dipinto «American Gothic» di Grant Wood (del 1930). Il populismo di destra e di sinistra è costante della tradizione politica statunitense, specie in tempi di crisi economica.
Obama è stretto tra i Tea Party che lo accusano di aver trasformato l’America in un paese socialista e la sinistra radicale che comincia a chiedersi se la Casa Bianca non si sia svenduta a Wall Street. In America le proteste populiste vengono alla lunga riassorbite nei meccanismi democratici e costituzionali, con meno traumi rispetto alla storia europea. Occhio dunque ai radicalismi dei Tea Party e ai loro echi in certi estremismi sarkoziani sui Rom, a certe tendenze xenofobe dell’Est Europa e anche di casa nostra. La folla dei Tea Party è specchio del malcontento americano contro Washington. Il radicalismo della protesta mobilita le coscienze, eccita gli animi, galvanizza i militanti. Ma non è detto che alle elezioni si trasformerà in un vantaggio per i repubblicani. Il Grand Old Party è sulla strada di una vittoria a novembre, ma i candidati troppo estremisti usciti dalle primarie repubblicane potrebbero spaventare l’elettorato moderato e indipendente. Vedremo. Il rischio è che una pattuglia agguerrita di deputati e senatori sponsorizzati Tea Party possa far ricadere l’America nelle peggiori tentazioni protezioniste in economia e isolazioniste in politica estera. A meno di due anni dall’elezione del primo presidente afroamericano, però, l’America si conferma paese vivo, dove nascono movimenti politici e ci si scontra, anche ruvidamente, su liberismo e keynesismo, sulle ricette migliori per uscire dalla crisi, pur tra kitsch ed eccessi. Magari fosse così da noi.