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 2010  agosto 30 Lunedì calendario

Il «depresso» Leonard Cohen a 76 anni ha imparato a ridere - La voce è un rantolo, un rantolo al tempo stesso aspro e caldo che sbuca dai sotterra­nei dell’Io, e del resto i suoi ver­s­i sono già musica senza la mu­sica

Il «depresso» Leonard Cohen a 76 anni ha imparato a ridere - La voce è un rantolo, un rantolo al tempo stesso aspro e caldo che sbuca dai sotterra­nei dell’Io, e del resto i suoi ver­s­i sono già musica senza la mu­sica. Leonard Cohen, 74 anni ma sempre giovane per virtù di poesia, è ancora oggi il padre putativo dei cantautori dark e un uomo fuori del comune che ama la transitorietà. La sua nuova vita- dopo 15 anni di as­senza dal palco - ora è fatta di tournée; non un «never en­ding tour» come quello del­l’amico- rivale Dylan, ma un continuo diffondere «il verbo» per poi fermarne i momenti magici su disco, come Songs From the Road (in uscita il 14 settembre), il cd-dvd-blue ray che racconta il suo giro mon­diale di concerti del 2008-2009, o Bird On a Wire , il film di Tony Palmer che uscì nel ’74 in pochissime copie, poi sparì ed ora torna in dvd (per comparare il vecchio e nuovo Cohen). Ora lui è di nuo­vo­on the road e mercoledì toc­cherà l’Italia con un’unica da­ta, in piazza Santa Croce a Fi­renze, per chiudere l’«Estate fiorentina» con la nobiltà delle sue storie-canzoni. Cohen è qui - è passato in questi giorni da Irlanda, Norvegia, Francia ecc- in un trionfo di pubblico e di critica, e starà in Europa fino ad ottobre. Col suo abito nero e l’inseparabile Borsalino è una sorta di Mark Twain moderno che nel 1962 esordì col roman­zo Il gioco preferito per poi «convertirsi» al cantautorato d’impegno. È in quel libro che si trovano i germi della sua ope­ra, con un background che si al­lunga dalla Bibbia ai maestri beatnik e il culto della poesia come «musica della parola». È lì che nascono capolavori, an­cora oggi l’ossatura dei suoi spettacoli, come la dolente There’s No Way to Say Goodbye (utilizzata per un noto spot tv e da molti confusa con Suzanne per la melodia molto simile), Dance Me to the End of Love , Fa­mous Blue Raincoat , I’m Your Man , Ain’t No Cure For Love , l’epica Hallelujah : intreccio di vissuto e azzardo visionario, confuso senso religioso (l’ebreo canadese che finirà in un monastero buddhista) insi­d­iato da una liberatoria e golo­sa carnalità. «Ho ricevuto il ti­tolo di poeta- dice oggi-e for­se lo sono stato per un po’. E il titolo di cantante mi è stato gentilmente attribuito anche se a stento ero capace di into­nare un motivo, odiavo tutti ma fingevo di essere genero­so e nessuno mi ha mai sma­scherato ». Anzi, paradossalmente è sempre più popolare, compli­ci gli arrangiamenti dal vivo moderni, a tratti ammiccanti, con tanto di coriste e di ariose uscite rock e pop. Ma lui, nono­stante tutto non indossa ma­schere; è un depresso sardoni­co­che sa ridere delle cose tragi­che, raccontare storie «da do­menica mattina col sole» ma soprattutto parlare alle co­scienze dal buio dell’anima. Il nuovo Cohen (nella sua terza, quarta o quinta vita) sa anche ridere sul palco, e canta il mon­do col quel distacco poetico che lo rende più comprensibi­le a tutti pur tuonando, in A Sin­ger Must Die : «Ora l’aula è tran­quilla ma chi confesserà/È ve­ro che ci hai tradito? La rispo­sta è sì/Poi leggetemi la lista dei miei crimini/chiederò quella pietà che il vostro amo­re mi negherà/ E tutte le signo­re piangeranno ma il giudice non ha scelta/ Un cantante de­ve morire per le bugie della sua voce». First We Take Manatthan , In My Secret Life, The Partisan , Waiting For a Miracle sono sto­rie sempreverdi di un’esisten­za senza picchi alla ricerca di qualcosa (cosa?) in cui rinasce­re uomo vero e completo. Da lì convergenze e divergenze con Bob Dylan e la lunga esperien­za mistica in un monastero Zen. Con Dylan il primo incon­tro è del 1967; l’ebreo del Min­nesota populista che canta la nuova società e quello canade­se individualista che - come L’uomo invisibile di Ralph Elli­son- è in cerca della sua identi­tà in un mondo che non riesce a comprendere. Con Dylan, Cohen condivide ancora il motto«Non c’è niente che pos­sa prendere da voi se non una coscienza inquieta». La co­scienza inquieta che lo porta in ritiro sul Monte Baldy, dove con il maestro ultranovanten­ne Seasaky Roshi «ritrova la pa­ce dello spirito e il gusto dell’al­col ». Anche in monastero Cohen è un alieno in eterna lot­ta­con la sua forza e la sua debo­lezza. Tanti anni in isolamen­to, rapito dalla fede...Poi di col­po tutto passa; se ne va dal con­vento e nella poesia Partenza dal Monte Baldy scrive: «Sono sceso dal monte dopo anni di studio e rigorosi esercizi. Ho la­sciato i vestiti appesi ad un gan­cio nella vecchia baracca dove avevo passato tanto tempo a se­dere, dormendo poco. Alla fi­ne ho capito di non avere il mi­nimo talento per le Questioni Spirituali». Troppe donne, al­col, troppo tormento interiore per un monaco; così, tornato sulla Terra è passato alla fase «Borsalino», a quella dei con­certi più «rilassati» (con l’ag­giunta comunque di brani forti come Feel So Good , Born In Chains , The Darkness che lo tra­sforma in novello bluesman), musicalmente più comprensi­bili ad un pubblico più vasto, anche se lui è sempre in cerca del bandolo tra il proprio passa­to, presente e futuro. Elabora sul palco testi di Keats e di Lord Byron e dice che «ha chiuso il libro dei desideri ed è passato alle cose di tutti i giorni, quelle piccole cose che fanno grande la vita».Almeno fino alla prossi­ma trasformazione.