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 2010  agosto 30 Lunedì calendario

Perché non siamo un Paese per scienziati - Gli italiani non sono solo un popolo di poeti e navigatori, ma anche di ottimi medici e scienziati

Perché non siamo un Paese per scienziati - Gli italiani non sono solo un popolo di poeti e navigatori, ma anche di ottimi medici e scienziati. Non c’era certamente bisogno di una nuova classifica per appurarlo, tuttavia la lista della Virtual Italian Academy, che valuta la performance in termini di pubblicazioni e di impatto accademico di 400 ricercatori italiani, ce lo conferma e ci costringe a ricordare nomi di nostri illustri connazionali che troppo spesso lasciamo in ombra. Nomi come quelli di Carlo Croce, Napoleone Ferrara, Giorgio Trinchieri, Alberto Mantovani e molti altri ancora. Uomini (e donne, come Silvia Franceschi, a capo del gruppo di biologia ed epidemiologia dell’Agenzia internazionale per la Ricerca sul Cancro di Lione) che hanno dato e stanno dando contributi essenziali alla lotta contro malattie come il cancro, l’Hiv, la leucemia, l’epatite e molte altre che affliggono il genere umano. La classifica però ci offre anche altri spunti di riflessione. La prima cosa su cui ragionare è la constatazione che una grande fetta di questi nomi eccellenti non stanno conducendo la loro ricerca in Italia ma all’estero. Tra i migliori 20 solo 7 lavorano in Italia, gli altri 13, ovvero il 65%, sono tutti fuori. Allargando la lista ai top 50 le cose non migliorano molto: quasi il 60% dei migliori 50 è all’estero. Le proporzioni si invertono se andiamo a vedere la parte bassa della classifica: tra gli ultimi 100 il 74% è in Italia. Questo non significa solo che gli altri Paesi ci rubano tutti quelli più bravi, perché in realtà molti di quelli che sono all’estero vi si sono trasferiti assai prima di diventare famosi (Carlo Croce è in Usa da circa trent’anni, Napoleone Ferrara dai tempi del suo postdottorato alla Ucla, e potremmo fare altri esempi analoghi), ma significa che chi è andato all’estero, pur avendo già una marcia in più, ha trovato le condizioni giuste per poter sfruttare questa marcia e correre più veloce verso la meta. È anche per questo che se andiamo a vedere l’indice H, ovvero l’indice di performance utilizzato per stilare la classifica, e ne calcoliamo la media per tutti i ricercatori che sono in Italia confrontandola poi con la media di coloro che sono all’estero, ci accorgiamo che i ricercatori che lavorano in Italia hanno una performance media molto più bassa di quelli all’estero. L’indice di performance medio per i ricercatori che lavorano in Francia è di 57.4, per quelli in Usa è 56.3, per quelli in Svizzera 51.8, per quelli in Italia è 44.9. Si tratta chiaramente di numeri da prendere con estrema cautela, perché includono ricercatori attivi in settori anche molto diversi e quindi non sempre confrontabili, ma a livello meramente indicativo danno quantomeno dei segnali. Il segnale chiave è che all’estero la produttività scientifica, che non dipende mai esclusivamente dall’individuo ma dal contesto in cui si forma e opera, è assai più elevata che da noi. Un’altra cosa importante da tenere in considerazione è che i nostri ricercatori all’estero non solo hanno avuto le condizioni per crescere e affermarsi, ma anche quelle per formare le nuove generazioni di scienziati del Paese in cui operano. Infatti la maggior parte di loro sono ormai da molti anni direttori di grandi centri di ricerca che hanno a disposizione centinaia di giovani e centinaia di milioni di dollari per fare ricerca, assumere e far crescere nuovi ricercatori. Un sistema così oliato non solo garantisce all’individuo bravo l’opportunità di lavorare bene e di emergere, ma dà a tutto il sistema di ricerca nazionale una continuità fondamentale per contribuire al benessere e alla crescita del Paese. La possibilità di avere risorse assegnate sulla base delle capacità e dei risultati, nonché quella di poter assumere e coordinare team di ricerca capaci, affiatati e operativi con una certa continuità sono condizioni essenziali per la produttività della ricerca scientifica. Purtroppo in Italia queste condizioni sono mancate per troppo tempo e solo in parte riusciranno a essere generate dalla recente riforma delle Università (sempre che i numerosi aspetti su distribuzione di fondi e incentivi lasciati a provvedimenti successivi del governo vengano poi attuati). Senza contare che le condizioni per una buona ricerca non stanno solo nel sistema di funzionamento dell’Università. In Italia non se ne parla mai, ma per fare ricerca non servono solo assunzioni o laboratori. È altrettanto importante, per esempio, poter avere o raccogliere dati, informazioni, statistiche, condurre esperimenti, studiare casi. E questa disponibilità dipende dall’organizzazione e dal funzionamento di mille altri enti e istituti: dall’organizzazione di Asl e ospedali fino all’Istat e alla Banca d’Italia. In alcuni settori tali condizioni sono anche migliori in Italia che in altri Paesi (per esempio in alcuni ambiti medici, dove non a caso abbiamo eccellenze significative), mentre in altri settori (per esempio in alcune scienze sociali come sociologia, alcuni rami di economia e public policy), i dati disponibili sono spesso lontani dalla quantità e soprattutto qualità di quelli disponibili in altri Paesi. In Italia si fanno tanti sondaggi d’opinione, ma i dati statistici che servono per la ricerca accademica fanno fatica a essere raccolti e resi pubblici in modo sistematico, costante e capillare. Manca una cultura che veda in queste attività una forma di investimento per la conoscenza e la crescita del Paese. Basta pensare che a maggio 2010 l’Istat non aveva ancora ricevuto i fondi per la realizzazione del censimento 2011. Insomma, le eccellenze non sono e non possono essere punte di iceberg che ogni tanto ci sorprendono e ci fanno compiacere della nostra bravura. Sono fenomeni che vanno saputi coltivare e portare avanti con costanza, consapevolezza, lungimiranza, dentro e fuori le università. Implicano uno sforzo collettivo, economico e culturale. L’Italia dovrebbe cercare di lavorare di più sulle condizioni affinché chi resta in patria possa essere produttivo al pari dei propri colleghi all’estero, e affinché possa realizzare questi obiettivi sentendosi non un eroe donchisciottesco e solitario, ma un «normale» scienziato che fa il proprio lavoro in un sistema motivante e funzionale.