FABIO POZZO, La Stampa 30/8/2010, pagina 19, 30 agosto 2010
Faroer, la mattanza dei vichinghi - L’arcipelago delle Faroer, o Føroyar nell’idioma locale, lingua imparentata con l’islandese e con alcuni dialetti della Norvegia occidentale, si erge sull’Atlantico tra l’Islanda e le Shetland con l’impeto di un’onda
Faroer, la mattanza dei vichinghi - L’arcipelago delle Faroer, o Føroyar nell’idioma locale, lingua imparentata con l’islandese e con alcuni dialetti della Norvegia occidentale, si erge sull’Atlantico tra l’Islanda e le Shetland con l’impeto di un’onda. Diciotto giganti di basalto, diciassette abitati. Sono emersi trenta milioni di anni fa dal blu dell’Oceano, sotto una spinta vulcanica che ha disegnato falesie vertiginose, scure e minacciose. Così brutali a vedersi da intimare l’altolà a coloro che si avvicinano dal mare, quasi fossero sentinelle d’un segreto. Quello di un patrimonio naturale di rara bellezza, costituito da fiordi profondi, valli che s’addolciscono nel verde dell’erba folta e grassa, scorci mozzafiato. Ma anche il mistero di riti che spezzano il cuore. È qui, infatti, che si combatte l’ultima battaglia degli ambientalisti. Qui, il nuovo fronte, dopo la «trincea» della baja di Taiji, quella della mattanza giapponese dei delfini, e dell’Isola de-la-Madeleine, in Canada, dove si uccidono a bastonate i cuccioli di foca. Alle Faroer si può arrivare con la nave, ma anche dal cielo: ed è un’esperienza forte. L’aereo s’infila nelle nuvole, perde repentinamente quota sino ad atterrare sul sessantaduesimo parallelo. Poi si lascia l’aeroporto dell’isola di Vagar, costruito dai militari inglesi durante la Seconda guerra mondiale, striminzito come un deposito d’autobus e, il più delle volte, ci s’immerge nel nulla. Le nuvole sono così basse che toccano l’asfalto. È come viaggiare nell’ovatta, lungo il saliscendi continuo della rete stradale - perfetta, tunnel compresi - che porta a Tòrshavn. Gli isolani, discendenti dei vichinghi norvegesi che nel XI secolo hanno strappato l’arcipelago a uno sparuto gruppo di monaci irlandesi (da qui sarebbe passato anche Brendano), vanno fieri della loro capitale che porta il nome del Dio del tuono. «È la più piccola d’Europa», dicono. Ed è vero. L’abitano in 19 mila, circa il 40% dell’intera popolazione, che fa quasi cinquantamila anime, senza contare quelle emigrate per sfuggire all’isolamento. La città è una distesa di case dai tetti spioventi e dalle facciate colorate, che ravvivano il grigio delle giornate di nebbia. Spicca il complesso del Løgting, l’assemblea legislativa che i vichinghi istituirono più di mille anni fa sul promontorio di Tinganes. Altro motivo d’orgoglio locale. «È il parlamento più antico d’Europa», dicono. Probably. Certo, nei secoli tutto è cambiato. Caffè, pizzerie, Internet point, banche hanno ridisegnato i confini della città. C’è persino uno stadio per il calcio, sport molto seguito anche qui a ridosso del Circolo polare artico: è il campo di casa della Nazionale, ventinove footballer che si piazzano al 125° posto nella classifica Fifa e che si apprestano, il 7 settembre, a incontrare l’Italia per le qualificazioni europee. Sì, le Faroer hanno cambiato volto nel tempo. Continuano a vivere di pesca, ma la fame delle loro reti ha quasi prosciugato i banchi, tanto da far scommettere sul turismo e far sognare il petrolio che si cela sotto i fondali. Continuano a incassare le sovvenzioni da Copenhagen, che lascia al protettorato solo l’amministrazione degli affari interni, provvedendo al 4% del Pil, e pensano sempre di meno all’indipendenza, moto rosicchiato dalla crisi economica in atto. Resistono soltanto le tradizioni. Riti che spezzano il cuore dei «puffin», i buffi pulcinella di mare che popolano le scogliere e che nei ristoranti servono al forno su un letto di patate. Riti che condannano le balene-pilota (Globicephala melas), scannate nella mattanza del «Grindadráp»: mille esemplari in media uccisi ogni anno. Gli isolani le attirano con i motoscafi nelle baie, le costringono ad arenarsi e le fanno fuori, prima facendo penetrare a martellate nelle loro carni lunghi uncini e poi spaccando loro la spina dorsale con coltellacci. Così l’acqua si tinge di rosso. Non lo fanno per fini commerciali, ma per motivi di sussistenza, dicono. «Lo fanno per divertimento» taglia corto Paul Watson. «Oltretutto questi animali sono contaminati. I bambini delle Faroer hanno nei loro corpi la più alta concentrazione di mercurio tra tutte le popolazioni del pianeta». Watson è il leader di Sea Shepherd, l’associazione animalista americana che incrocia i mari dal 1977, assaltando balenieri e altri fuorilegge degli Oceani. Il comandante con il volto da pirata proprio adesso sta solcando le acque dell’arcipelago al timone della sua nave, la «Golfo Azzurro». Fa rotta sulla mattanza, che la stessa regina danese Margrethe II tutela, inviando le sue vedette militari. Minimamente infastidita, la sovrana, dal film horror che sta andando in scena: davanti alla spiaggia di Leynar in queste ore sono finiti sotto le lame dei faroesi ottanta globicefali. «Hanno scannato anche femmine gravide, sbattendo i feti in grandi contenitori di plastica. A Klaksvik li hanno macellati sul posto, a poca distanza dalle carcasse delle madri» denuncia Watson. Ma la voce del «pirata» si perde tra le onde. Nessuno interviene. Non la Ue che vieta l’uccisione di balene, perché l’arcipelago non ne fa parte. Non l’International Whaling Commission che protegge i cetacei, ma non quelli minori come i globicefali. Né vale la Convenzione di Berna, perché la Danimarca non l’ha estesa alle Faroer. Così il massacro continua, nel paradiso di sangue.