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 2010  agosto 30 Lunedì calendario

Giovani scienziati I migliori fuggono all’estero (+schede) - Dove sono i cervelli italiani che hanno meno di 55 anni? Non in Italia, di sicuro

Giovani scienziati I migliori fuggono all’estero (+schede) - Dove sono i cervelli italiani che hanno meno di 55 anni? Non in Italia, di sicuro. A scorrere la prima classifica con nomi, provenienza e paese di destinazione lavorativa compilata dalla Via-Academy, associazione di accademici espatriati, c’è da riflettere molto sul futuro di ricercatori e scienziati del nostro Paese. Su 400 nomi di grandi cervelli, in 268 lavorano ancora in Italia, circa 6 su 10. Fin qui, tutto bene. I problemi iniziano quando si va a dare uno sguardo alla parte alta della classifica. La ricerca è stata appena completata, quindi i dati sono aggiornati. I venti risultati più elevati sono divisi fra 29 scienziati, solo 11 lavorano in Italia, vale a dire circa 3 su 10. Sono i cervelli italiani che ce l’hanno fatta senza fuggire, persone che hanno dato grandi contributi alle ricerche nel campo dell’immunologia o della ricerca sulle cellule. C’è uno dei più importanti nefrologi del mondo e chi ha fatto molto negli studi sul cancro. Hanno tutti più di 55 anni. Non è così per chi è espatriato. Al quinto posto della classifica c’è Alex Sette, brillantissimo immunologo che da poco ha superato i cinquant’anni e già da tempo direttore del centro di Malattie Infettive di La Jola in California. Oppure al decimo posto c’è Pier Paolo Pandolfi, che addirittura di anni ne ha 47, è volato negli Stati Uniti subito dopo la laurea da ricercatore presso la Harvard Medical School di Boston, ed ha scoperto un nuovo metodo per combattere il cancro. Altre storie, altre vite. Chi resta in Italia, lo sa. Farcela è più difficile, ma addirittura impossibile se si pretende di restare al Sud. I nomi nella parte alta della classifica lavorano a Milano, Genova, Padova e Torino. E non va molto meglio se si considera il totale dei cervelli rimasti in Italia: in classifica esistono solo due città meridionali. Napoli è all’undicesimo posto ma solo grazie alla presenza di altri centri di ricerca come Telethon e il Cnr. E Bari - dove esiste solo l’Università - è all’ultimo posto. Infatti per incontrare il primo cervello italiano che lavori al Sud bisogna superare altri 26 scienziati sparsi nel mondo o nel nord Italia, e per incontrare il primo che lavori in un’università meridionale bisogna superarne almeno 100. L’idea di stilare la classifica è di Mauro degli Esposti, biochimico originario di Imola, dal 2003 insegna Molecular Toxicology all’Università di Manchester in Gran Bretagna. Insieme con Luca Boscolo, consulente informatico con molte esperienze internazionali, hanno preso in considerazione l’h-index, uno dei parametri più usati a livello internazionale per valutare ricercatori e scienziati sulla base delle pubblicazioni e citazioni ma anche con una piccola correzione sul tempo in modo da non favorire i più anziani. «Non esiste alcuna analisi del genere finora, solo una classifica di università derivata dai dati CIRV2003 ed una più recente ristretta ad accademici di fisica - racconta il prof. Mauro Degli Esposti - I risultati del nostro lavoro sono aperti a varie interpretazioni. Il primo che balza agli occhi è che tutti - o quasi - i top dei top sono all’estero, una situazione veramente anomala per una nazione con tanti talenti». *** Paolo Comoglio ha 65 anni e secondo la classifica del Via Academy è uno dei 20 cervelli italiani migliori al mondo. Dal 2000 direttore scientifico dell’Istituto per la Ricerca e la Cura del Cancro di Torino, un punto di riferimento mondiale. Ha avuto il suo periodo all’estero, cinque anni a Washington con un pioniere dell’istologia a formarsi. Poi però è rientrato a Torino. Se gli chiedi il perché scherza un po’: «Meglio primo qui che uno dei tanti altrove». Poi tira fuori il suo amore per la terra dove si ritira a coltivare la sua vigna nei momenti liberi. La verità è che uno come lui probabilmente negli Stati Uniti avrebbe ottenuto i suoi risultati molto più facilmente. «Lì le istituzioni sono al servizio della ricerca, qui la ricerca è soltanto un lusso. Qui si producono grandi risultati, nonostante le istituzioni». Ma il professor Comoglio non è di quelli che amano lamentarsi. «Non dobbiamo dimenticare che comunque siamo ai livelli più alti al mondo in alcuni settori. Nella ricerca oncologica migliori degli italiani sono soltanto statunitensi e giapponesi». Il vero problema dell’Italia? Comoglio non ha dubbi: «Il futuro. Mancano due generazioni di ricercatori. C’è un buco. Mancano i cinquantenni e fra i più giovani mi rendo conto che non è facile dedicarsi alle ricerche con mille euro al mese». *** Alberto Mantovani ha 62 anni, insegna Patologia Generale all’Università di Milano ed è direttore scientifico dell’Istituto Clinico Humanitas dal 2005. E’ quarto nella classifica dei cervelli italiani nel mondo, il primo di quelli rimasti in Italia. Con i suoi studi ha fatto fare importanti passi avanti nelle conoscenze sullo sviluppo dei tumori. La voglia di fuggire all’estero non sembra averlo mai colpito. «Ho avuto la fortuna di lavorare in istituzioni che mi hanno sempre consentito di fare ricerca ed è un errore sostenere che l’Italia non conti molto. La verità è che se si fa un rapporto tra quanto si investe in ricerca e quanto si produce è evidente che esiste una fetta di ricercatori a livelli altissimi». E che lavora con difficoltà. «Spesso abbiamo la sensazione di nuotare controcorrente rispetto al sistema», ammette Mantovani. «Il Paese non è flessibile, non è meritocratico, non ha quel trasferimento di esperienze con l’industria che invece è indispensabile». Però ne vale la pena, sostiene. «In Italia abbiamo un patrimonio di entusiasmo e di capacità di lavorare che è straordinario. I nostri giovani sono molto competitivi nel raccogliere i finanziamenti europei. Purtroppo però solo in pochi vengono a spendere questi fondi in Italia. Il nostro sistema produce cervelli ma non ne attira. Quindi quelli come me devono cintinuare a nuotare controcorrente». *** Giuseppe Remuzzi ha 61 anni ed è uno degli otto migliori cervelli italiani nel mondo in base alla classifica del Via- Academy, il terzo di quelli rimasti in Italia. Dirige l’Istituto Mario Negri di Bergamo, è uno dei più importanti nefrologi esistenti e uno dei pochi a sostenere una tesi che sembra una provocazione: se non fosse rimasto sarebbe stato più difficile arrivare dove è ora. «In Italia da anni ormai i governi di ogni colore non hanno fatto che la stessa cosa: penalizzare la ricerca. In alcuni settori però il nostro Paese offre alcune opportunità in più a chi le sa sfruttare». Il prof. Remuzzi si riferisce al Sistema sanitario nazionale. «Non esiste negli Usa dove è impossibile realizzare studi indipendenti su grandi popolazioni di pazienti, soltanto il governo può farlo e infatti lo fa». A quel punto, però, si perde il valore del singolo ricercatore che invece ha portato Remuzzi a vincere nel 2005 il più importante riconoscimento nel suo campo, il premio “John Hamburger” che nessun italiano prima ha raggiunto. Anche lui è pienamente convinto insomma della sua scelta di restare in Italia. «E’ dove non c’è nulla che bisogna fare. Quando siamo arrivati qui dove ora c’è il nostro istituto esisteva solo un prato e nessuno aveva fatto ricerca. Ora c’è un centro di grande livello e 220 ricercatori che arrivano da tutto il mondo». *** Tullio Pozzan è al tredicesimo posto nella classifica dei grandi cervelli italiani nel mondo, il settimo di quelli rimasti in Italia. Ha 61 anni, origini veneziane e per alcuni anni ha studiato in Inghilterra i suoi studi hanno portato ad una svolta nella biologia cellulare e molecolare, ed in particolare modo nello studio dei segnali intracellulari. Tornato in Italia, ha proseguito il suo lavoro all’Istituto di Patologia Generale dell’Università di Padova. Mai pensato di fuggire. «A 34 anni ero già un “barone”. Non avevo problemi a mantenere una famiglia e avevo il mio gruppo di ricerca. Non aveva senso andarsene. Forse ho perso qualcosa: avrei avuto più denaro, più collaboratori, maggiore influenza ma sono contento di lavorare qui. E’ vero però che ora si lavora peggio. Ci sono meno fondi per la ricerca ma questo è un problema internazionale. In Italia però erano già pochi e distribuiti male. Apprezzo il coraggio della riforma voluta dal ministro Gelmini: purtroppo si è deciso di farla a costo zero e quindi sarà difficile che possa avere risultati. Sono un ottimista e spero che l’Italia possa uscire da questa crisi ma solo un sistema davvero meritocratico può offrire questa possibilità. Soltanto quando saranno punti i professori che sceglieranno male i propri ricercatori si potrà davvero andare avanti con le risorse migliori».