Marco Del Corona, Corriere della Sera 30/08/2010, 30 agosto 2010
IL RISVEGLIO DEL VULCANO ADDORMENTATO DA QUATTRO SECOLI —
Hanno provato a lasciarsi dietro di sé, lontani, i brontolii del vulcano e la colonna di cenere che per un chilometro è mezzo si è alzata dalla vetta del Sinabung. Adesso la loro vita si rannicchia nei rifugi allestiti alle pendici della montagna. Ai padri, e ai padri dei loro padri, non era mai successo. Questa paura è nuova. Il Sinabung aveva eruttato per l’ultima volta quattro secoli fa, poi era diventato un silenzioso pezzo del paesaggio, 2.460 metri sopra le foreste e le risaie dell’isola indonesiana di Sumatra. Allarme rosso, quasi 20 mila persone evacuate, ma i soli due morti sono stati per problemi respiratori e un attacco cardiaco, e i feriti per incidenti stradali nell’ansia della fuga.
Ieri sera il cratere sembrava essersi un po’ calmato. L’Indonesia tuttavia sa che l’«anello di fuoco» — il sistema di vulcani e faglie su cui giace l’arcipelago — non concede pace. Al massimo qualche tregua. L’Indonesia e il fuoco sotto di lei sono geologia che irrompe nella storia. C’è, allora, una specie di ordinaria amministrazione della distruzione: il terremoto che il 30 settembre dell’anno scorso ha squassato Padang, per quanto atroce, non è stato dei peggiori che hanno colpito l’Indonesia. E c’è, però, l’eccezionalità, della quale l’Indonesia è protagonista e testimone: catastrofi che torcono la Storia.
Ecco: il Krakatoa. Il mondo, dopo l’eruzione del Krakatoa, non è stato più lo stesso. Allora (1883) l’arcipelago era sotto la corona olandese, selvaggio scrigno di spezie e ambizioni coloniali. Mentre le ceneri si mettevano in viaggio nell’atmosfera, il telegrafo lasciò che la notizia di una catastrofe apocalittica atterrisse l’Europa. Non era stata la peggiore. Nel 1815 a deflagrare era stato un altro dei vulcani indonesiani, il Tambora, l’eruzione più imponente della storia. I circa 50 chilometri cubi di polveri produssero un abbassamento della temperatura globale di quasi un grado e in Europa fecero dell’estate del 1816 una non-estate. Con danni all’agricoltura anche nordamericana e conseguenze che sono state proiettate anche sull’arte (certi tramonti dorati nei quadri di Turner deriverebbero dalle tracce del Tambora nell’atmosfera) o sulla letteratura ( l’isola mento di Mary Shelley nella casa svizzera di Lord Byron, causato dalla stagione avversa, che la indusse a scrivere «Frankenstein»…).
Nell’era del riscaldamento globale le ceneri dei vulcani colpiscono il clima con un segno negativo. Nel 1991 la temperatura si abbassò di mezzo grado quando nelle Filippine il Pinatubo buttò in aria 10 chilometri cubi di materiale. E nell’era della mobilità globale sono state le ceneri dell’Eyjafjallajökull, in Islanda, a sconquassare i trasporti aerei dall’Europa all’America fino all’Estremo Oriente. Polvere nel motore della storia.
Lo tsunami che il 26 dicembre 2004 ha devastato Aceh, l’estremità nord di Sumatra, è anch’esso figlio dell’instabilità geologica dell’area ma ha anch’esso coinvolto la storia. Oltre 200 mila vittime sulle sponde dell’Oceano Indiano, eppure il maremoto è riuscito a pacificare la sanguinosa crisi ultraventennale fra l’esercito indonesiano e i separatisti islamici del Gam (il Movimento per l’indipendenza di Aceh). La presenza di truppe straniere e cooperatori internazionali favorì un accordo tra governo e guerriglia, e adesso Aceh è una provincia comunque difficile — è la sola dell’Indonesia che applichi la «sharia» coranica — ma senza le atrocità del passato. L’irrequietezza del Sinabung, in queste ore, incombe su una terra spaventata, sì, ma solo dalla natura. La gente di Sumatra riesce a mettere ogni cosa al suo posto, anche la ferocia della natura, se nella Padang delle macerie l’imam pescatore Sukiman spiegava al Corriere l’anno scorso: «Il terremoto non è una punizione ma una prova che Allah ci impone. Se muoiono degli innocenti, è perché il loro tempo era giunto».
Marco Del Corona