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 2010  agosto 30 Lunedì calendario

MA GLI INVESTIMENTI IN LIBIA SONO ANCORA A CORRENTE ALTERNATA —

Domanda scontata ma inevitabile: anche l’autostrada «dell’amicizia», che secondo gli accordi presi fra Silvio Berlusconi e Muammar Gheddafi dovremmo costruire in Libia, costerà come quelle italiane? Cioè il triplo delle autostrade spagnole o francesi? Sempre che poi si faccia: 1.700 chilometri, per una spesa, ha detto qualche giorno fa il ministro delle Infrastrutture di «almeno 5 miliardi di euro» che saranno pagati «in vent’anni» e faranno lavorare tre consorzi di imprese italiane. Secondo Altero Matteoli c’è la fila: avrebbero già fatto domanda 20 ditte. Ma è quell’«almeno 5 miliardi» a destare non poche perplessità. Visto che, diviso per la lunghezza del tracciato, farebbe tre milioni al chilometro: un decimo del costo medio di un’autostrada italiana, un terzo di un’autostrada spagnola, meno di un sesto di quanto sta costando il semplice adeguamento della Salerno-Reggio Calabria. Un conto così modesto che se fosse vero avrebbe del miracoloso. In ogni caso, cinque miliardi di euro sono sempre cinque miliardi: più o meno quello che dovrebbe costare il ponte sullo Stretto di Messina. Una spesa sostenibile, con l’aria che tira, sia pure diluita come dicono in vent’anni? Vedremo.
Certo è che quell’autostrada gliela promettiamo, al colonnello, da diversi anni. Ancora prima che venisse firmato in pompa magna il trattato di amicizia. Se ne vociferò anche prima che tornasse Berlusconi a Palazzo Chigi, durante la breve stagione di Romano Prodi. Tuttavia non c’è dubbio che la promessa di quell’opera è legata indissolubilmente all’attuale governo e ai rapporti fra Gheddafi e il Cavaliere. Rapporti che, secondo una storia rivelata lo scorso anno dal Guardian, non sarebbero limitati alla politica. Il quotidiano britannico ha raccontato che la Lafitrade, una società controllata dalla Lafico (sigla nota in Italia per aver controllato in passato una quota rilevante della Fiat), equiparabile a un «fondo sovrano» libico, ha una partecipazione del 10% nella Quinta communication, casa di produzione cinematografica fondata dal socio storico di Berlusconi Tarak Ben Ammar. Ma della Quinta communication è da tempo socia anche una società lussemburghese riconducibile alla Fininvest, holding attraverso la quale la famiglia Berlusconi controlla l’impero televisivo del Cavaliere. Circostanza sulla quale lo stesso Tarak Ben Ammar ha tenuto a precisare: «Fininvest era azionista molti anni prima che Berlusconi entrasse in politica e Gheddafi non ne sapeva nulla».
Sia come sia, quando due anni fa Berlusconi e Gheddafi firmarono il famoso trattato, le reazioni nel centrodestra (Lega Nord a parte) e non solo furono trionfalistiche, come se si fosse finalmente aperte una nuova stagione. In effetti gli interessi italiani in Libia, soprattutto nel campo del petrolio, erano presenti da cinquant’anni. E i rapporti, a volte molto intensi, a volte meno, avevano sempre seguito gli umori della politica. L’Italia è da sempre il principale partner commerciale di Tripoli, ma questo non ha impedito che la storia degli affari comuni sia a corrente alternata. Anche per ragioni che poco o nulla hanno a che fare con la politica. Vero che la nostra compagnia petrolifera pubblica, l’Eni, è lì dal 1959. Vero che c’è anche l’Iveco del gruppo Fiat. Insieme a diverse imprese di costruzioni come Impregilo, Bonatti, Maltauro, Garbol. Vero che c’è pure l’Enel, la Tecnimont, l’Edison, Telecom… Vero che la Sirti con la francese Alcatel sta mettendo le fibre ottiche. Vero che l’Agusta del gruppo Finmeccanica vende gli elicotteri. Vero che la Libia ha una rilevante quota dell’Unicredit (il 7% circa), una delle principali banche italiane. Come è vero che il terzo figlio di Gheddafi, Al Sa’adi, ha una passione per il calcio italiano: nel 2003 lo ingaggiò perfino il patron del Perugia Luciano Gaucci.
Ma il trionfalismo scatenato dal trattato di amicizia deve comunque fare i conti con alcuni elementi oggettivi. Il primo è il mercato. La Libia è un Paese che cresce economicamente ma ha pur sempre appena 6 milioni di abitanti con un reddito modesto. Il secondo è la situazione politica. Sentite il commento contenuto nella scheda Paese del nostro ministero dello Sviluppo economico: «Il colonnello Gheddafi mantiene saldamente il controllo della vita politica… e non si ravvisano concrete minacce di opposizione nel medio periodo. La questione principale resta la successione, in assenza di un processo formale di successione al potere. Il candidato più probabile alla guida del Paese rimane il figlio di Gheddafi, ma non è esclusa la possibilità di un processo di transizione più turbolento, specialmente nel caso in cui emergessero le istanze islamiste ancora latenti, sulla scia della diffusa disoccupazione e delle problematiche socio-economiche». E non sono gli unici, quelli del ministero dello Sviluppo, a pensarla così. Anche l’Ocse colloca la Libia nella sesta categoria di rischio. La sesta su sette in tutto.
Lo sanno, evidentemente, anche le nostre imprese alle quali il governo Berlusconi, con la legge 133 del 2008, mette a disposizione finanziamenti agevolati per sbarcare in Libia, oltre alla possibilità di un intervento pubblico nel capitale attraverso la Simest SpA. «Purtroppo — dice sempre la scheda Paese del ministero dello Sviluppo — l’utilizzo di questi strumenti per gli investimenti in Libia è quasi inesistente». Proprio così: «Inesistente». Sapete quante sono state dal 2008 a oggi le domande presentate da aziende italiane per investire in Libia con questi incentivi? Tre in tutto, per un importo di un milione 700 mila euro.
Sergio Rizzo