Massimo Mucchetti, Corriere della Sera 30/08/2010, 30 agosto 2010
FABBRICA ITALIA LE DUE INCOGNITE
Sergio Marchionne promette investimenti in Italia per 20 miliardi, non chiede più rottamazioni e nemmeno prospetta aumenti di capitale. Tutti tranquilli, sindacati moderati, governo e azionisti. La nuova Fiat può farcela da sola, purché abbia fine la lotta di classe. Come ogni semplificazione d’autore, anche quella di Marchionne esercita il suo fascino indiscreto, ma l’economia non è mai così semplice, nemmeno quella aziendale. E nel caso della Fiat, tra progetti e realtà emergono distanze tutte da capire.
La New Fiat (Auto, Powertrain, Marelli, Comau, Teksid e altro tra cui la quota Rcs) investirà 19,7 miliardi tra il 2010 e il 2014. Fiat Industrial, la nuova holding che comprenderà Iveco, Chn e relativi motori, altri 6,3. Se, come si dice, il progetto Fabbrica Italia vale 20 miliardi, agli stabilimenti esteri andranno le briciole, benché diano i risultati migliori. Le joint-venture cinesi, russe, serbe, turche, dove si investiranno 3,3 miliardi per produrre 920 mila pezzi, esigeranno da Torino, che porta il know how, solo il 10% della spesa; in ogni caso, non essendo consolidate integralmente, l’onere non si vedrà nel bilancio.
L’Italia, dunque. In casa la Fiat perde, è vero. Ma perde anche perché utilizza troppo poco gli impianti che, per quanto ammortizzati, hanno ingenti costi fissi. Nel 2009, considerando il livello ottimale (280 giorni di lavoro l’anno 24 ore su 24), Mirafiori è stata usata al 64% della capacità produttiva, Cassino al 24%, Melfi al 65%, Pomigliano al 14% e la molisana Sevel al 33%. Tichy viaggiava al 93%, del Brasile non si dice nulla, ma sarà simile alla Polonia. L’insufficiente utilizzo degli impianti non dipende solo dai problemi sindacali: in passato, ci sono stati anni ben diversi. In larga misura deriva dalla difficoltà di vendere le auto nonostante gli incentivi. Nel 2010, a recessione e incentivi finiti, si vende ancora meno, ma la Fiat guarda oltre la transizione e prevede di aumentare capacità produttiva e produzione reale confidando in un ritorno ai livelli pre crisi nel 2014.
Per allora, il tasso di utilizzo degli impianti, resi ancor più potenti, dovrebbe salire all’88% a Mirafiori, al 93% a Cassino, al 101% a Melfi, al 90% a Pomigliano (mentre Tichy scenderebbe al 73%) e al 69% ad Atessa. La produzione italiana balzerebbe così da 650 mila a 1,4 milioni di automobili e da 150 mila a 250 mila veicoli commerciali leggeri, il tutto destinato in gran parte all’esportazione, con 300 mila pezzi in America. I marchi del gruppo torinese volerebbero nel quinquennio da 2,2 milioni a 3,8 milioni di vetture. E con Chrysler si raggiungerebbe la produzione di 6 milioni, considerata indispensabile per competere sui mercati globali. Un tale progetto, promette Marchionne, non richiede aumenti di capitale. Certo, quest’anno il debito netto delle attività industriali impennerà fin verso i 6 miliardi, ma poi calerà e tra 5 anni comparirà una liquidità netta di 3,4 miliardi nel 2014. Perfetto. Forse fin troppo perfetto.
In Italia stanno la forza e il rischio del progetto. La concentrazione degli investimenti si spiega con il fatto che solo con il pieno sfruttamento degli impianti nazionali l’aggregato Fiat-Chrysler agguanta il traguardo produttivo. Polonia e Brasile, insomma, non potrebbero aggiungere più di tanto. Se così è, Marchionne ha varato Fabbrica Italia perché non disponeva di alternative migliori. Avesse preso la Opel, con i finanziamenti pubblici legati alla salvaguardia delle unità produttive locali, avremmo sentito un’altra storia. Ma il governo e i lavoratori tedeschi (che non fanno più la lotta di classe, ma stanno nei consigli di sorveglianza) hanno ritenuto non conveniente il piano Fiat e la General Motors, appoggiata dalla Casa Bianca, si è tenuta infine la Opel.
E’ vero che Marchionne può andare in Serbia, ma quante Serbie ha sotto mano oggi, per quali quantità e fin dove può gestire la complessità accentrando tutto il potere? La dipendenza della Fiat da Fabbrica Italia restituisce un po’ di potere contrattuale al sindacato, al governo e a quanti, nella finanza, perseguono il proprio interesse di lungo periodo in un quadro più generale. Non dimentichiamo che tra il 1993 e il 1998 Mediobanca e Generali affiancarono la famiglia Agnelli nel controllo della Fiat e tra il 2002 e il 2005 le banche convertirono i crediti in azioni. Senza quei soccorsi non ci sarebbe stato Marchionne. Meglio turare le falle o prevenirle?
Ebbene, il futuro di Fabbrica Italia è appeso a due fili oggi invisibili ai più: il primo è la capacità mai scontata di progettare modelli vincenti ad alto valore aggiunto, e perciò adatti a essere prodotti in paesi ad alto costo del lavoro; il secondo è il ciclo dell’economia che, rallentando il ritorno degli investimenti, potrebbe minare le finanze aziendali. Nella storia della Fiat, ci sono successi come la Panda, la 500 e la Punto, ma anche promesse mancate come l’Alfa Romeo, la Lancia e l’alto di gamma. Il precedente piano quinquennale prevedeva per il 2009 l’azzeramento del debito, che invece è risalito a 4,4 miliardi. Insomma, tra il dire e il fare ci sono di mezzo incognite vere.
Dalle presentazioni agli analisti risulta che nel 2011, quanto tenterà di tornare in Borsa a Wall Street, Chrysler sia destinata a rendere più di New Fiat. Già tra un anno avremo un aggregato transatlantico con due fornitori di capitali americani, il sindacato Uaw e il Tesoro, determinati a difendere la «Us Factory», e un socio italiano, gli Agnelli, che non metterà soldi nell’auto. E’ chiaro fin d’ora dove penderà la bilancia delle convenienze per un leader come Marchionne, cittadino del mondo.
Il sindacato può (e deve) permettere alla Fiat di far marciare gli impianti con il massimo di flessibilità in cambio di soldi e poteri di controllo, per esempio sui flussi transatlantici delle tecnologie. Ma il quesito più arduo si pone alla classe politica e finanziaria, che è già intervenuta in Telecom e Alitalia e che non può non vedere come le ultime grandi imprese industriali siano fiorite (e sfiorite) sotto l’egida dello Stato e di Mediobanca, ormai fuori gioco da 10-15 anni: se ritiene che la New Fiat interessi ancora al Paese, chi farà da contraltare agli americani? Le banche, le assicurazioni, le fondazioni, la Cassa depositi e prestiti, la Sace? Vecchie idee, si dirà. Ma neanche affidarsi al patriottismo di un uomo solo e delle sue stock option è una gran novità.
Massimo Mucchetti