GABRIELE ROMAGNOLI, la Repubblica 29/8/2010, 29 agosto 2010
GRANDE FRATELLO
Che cosa rimarrà di tutti questi figli del Grande Fratello? Per arrivare alla risposta applichiamo lo stesso concetto di selezione della trasmissione televisiva. Scartiamo fino alla riduzione a uno. Procedendo prima per squadre e poi per singoli. Undici edizioni, ma non occorre la trafila delle nomination per arrivare alla più significativa. Lo dicono loro stessi, citando Vasco Rossi: «Siamo solo noi», quelli della prima volta. Se la ricordano tutti, almeno un po´ l´hanno guardata tutti, non foss´altro per capire di che cosa si trattava, per poter discutere il «fenomeno» a una cena in piedi, scriverci un editoriale controcorrente (quindi a favore). Certo, era l´inizio e quindi c´era l´imprinting, la forma primigenia, l´impressione che quella e non altra fosse la sostanza della cosa. Ma di più. Il Grande Fratello è l´espressione per eccellenza del genere reality.
Per quanto taroccato, sceneggiato, influenzato dal casting ben dosato, deve mantenere un rapporto con la realtà, la quotidianità, la normalità. La scommessa è proprio quella: metto dieci persone qualsiasi in una casa e tu che stai fuori ti appassionerai a guardare quello che potresti vedere nel tuo appartamento senza neppure accendere la tv, limitandoti a invitare qualcuno a caso. Ecco, i dieci della prima edizione, le bagnine, le gatte morte, i palestrati, erano quel campione lì, una fetta di realtà, li avevamo già incontrati prima, in qualche archetipo, salvo vivessimo sulla luna o in una torre d´avorio.
Le edizioni successive sono state un fantasy, il trionfo del «famolo strano», la necessità di incuriosire con modelli umani "laterali", frantumi di realtà. Quasi un freak più che un reality show: il transessuale che non si doveva capire da dove veniva e dove era andato, l´ex sequestrato, il genitore con prole al seguito (o viceversa), il nobiluomo, il nero, la maggiorata ninfomane, poi elencare più non saprei perché a un certo punto uno smette non soltanto di guardare o sbirciare, ma anche di ascoltare il rumore di fondo, perché l´esperimento è finito, il fenomeno ucciso dalla ripetizione. È successo l´inverso del marziano a Roma di Flaiano. Quello era straordinario, ma dopo un po´ nessuno se lo filava riducendolo a figura comune, di complemento. Qui sono arrivati i marziani, ma per quelli bastavano i film in prima serata, al Grande Fratello si chiedeva di più: rendere narrativa l´esistenza di tua cugina.
La prima edizione, dunque. E di quella, scremando ancora per arrivare al nocciolo, che cosa resterà? La risposta par di sentirla arrivare da un coro di voci: Taricone. Esatto. Di 187 concorrenti (più quelli a venire) l´unico che continuerà a vivere nell´immaginario sarà Pietro Taricone. Il primo, l´ultimo. Perché ha battezzato quell´edizione e ha avuto anche la fortuna di non vincerla, rimanendo lì, in quel limbo di attesa per un esito mancato, uscendo e cercando di spezzare il video, il ricordo, la cornice, facendo altro, riproducendosi e soprattutto, infine, morendo. La morte di Taricone, la sua iperrealtà, la violenza e l´assurdità di quello sfracellarsi, la commozione e l´isteria delle reazioni, hanno riportato tutto l´ambaradan. Dove? Alla realtà.
L´articolo di Giuliano Foschini pubblicato a fianco racconta dove sono finiti gli altri 186 e segue la rotte dei destini non solo prevedibili, ma previsti, quelli che erano stati indicati: qualcuno è ancora in tv, qualcun altro è tornato alla vita normale, oscura, qualcuno è finito bene, qualcun altro male. È come quando si guardano le foto del liceo, vent´anni dopo. C´è chi è diventato un medico, chi insegna nella stessa scuola, chi ancora lotta per disintossicarsi. E c´è chi è morto. In televisione non è previsto, se non quando le telecamere si sono ormai spente per compassione delle troppe rughe e della pronuncia incerta. La fine di Taricone spezza la linea narrativa, irride il «mal che vada ritorni alla vita di prima», rimette le cose al loro posto, la realtà al di sopra di tutto, con il suo ventaglio di possibilità al completo, anche quelle ferali e televisivamente indicibili.
Certo, la morte prematura induce al mito, ma Taricone non era James Dean o Ayrton Senna, basterebbe riguardarlo per rendersene conto. Questo dovrebbe fare Canale 5 se volesse il pieno di ascolti: invece di una nuova, stanca edizione in cui gli autori scelgono e manovrano una dozzina di extraterrestri, mandare a costo zero la replica della prima. E, alla fine, un minuto di "nero". In morte del reality? No, della realtà, che a volte si spegne.