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 2010  agosto 30 Lunedì calendario

L´ADDIO DEI MARINES SENZA VITTORIA A BAGDAD RESTA IL FANTASMA DEL LIBANO

Il primo soldato americano che ho incontrato sette anni fa non aveva più di vent´anni. Era di New York e aveva un´espressione smarrita. Forse soltanto stupita. Era appena entrato nella capitale nemica, l´aveva espugnata, ma non sapeva contro chi puntare il fucile automatico. Nessuno lo minacciava. Sulla piazza, nel quartiere popolare allora chiamato Saddam City e poi ribattezzato Sadr City, c´erano soltanto centinaia di ragazzi preoccupati di mettere al sicuro il loro bottino: frigoriferi, armadi, ventilatori, seggiole, materassi, appena rubati nei ministeri, negli ospedali, nei commissariati di polizia, nelle caserme abbandonate. Quei ragazzi non guardavano neppure quel soldato americano mandato in avanguardia nel labirinto di Bagdad. A loro importava che non ci fossero più poliziotti e soldati iracheni nei paraggi. Erano tutti scomparsi.
Se l´erano svignata. E lui, il giovane marine di New York, era stupito di non imbattersi in qualche nido di resistenza. Invece della battaglia che si aspettava assisteva ad un saccheggio. Forse, pensò, gli iracheni festeggiano cosi la fine della dittatura.
Comunque ai suoi occhi la guerra appariva ormai conclusa. Di questo era sicuro. Ed era altrettanto certo di averla vinta. E invece tutto stava per cominciare.
Dopo quel marine, che fu tra i primi a entrare a Sadr City, nei sette anni successivi più di un milione di soldati americani si sono avvicendati in Iraq. Quasi tutti adesso sono partiti. E dopo avere raggiunto il vicino Kuwait sono ritornati in patria o sono stati smistati in Afghanistan. Ma se ne sono andati senza cantare vittoria, anche se con il piglio di soldati di un grande esercito potente e invincibile. Nell´epoca dei conflitti asimmetrici una forza armata tradizionale (confrontata a realtà sociali e culturali ostili, da cui emergono guerriglie che agiscono nella clandestinità, e col terrorismo), può infatti essere militarmente invincibile ma non vittoriosa. L´avventura in cui è stata impegnata dal potere politico si rivela in tal caso fallimentare.
È accaduto altrove negli ultimi decenni ed è accaduto in Iraq. Dove le bombe continuano ad esplodere, dove il nuovo esercito iracheno non è sicuro di garantire la sicurezza prima del 2020, e dove la gente non sa se essere soddisfatta per la partenza delle truppe straniere d´occupazione o essere preoccupata per la situazione in cui esse hanno abbandonato il Paese. Molti dicono: «Hanno cominciato consentendo un saccheggio e ci lasciano nelle peste». Non pochi sono coloro che rimpiango Saddam. Ma è un rimpianto dettato dalla collera o dalla paura. È il "si stava meglio quando si stava peggio" che non va interpretato alla lettera. Non ci sono stati comunque sventolii di fazzoletti da parte della popolazione e nessuno ha rivolto un saluto riconoscente ai soldati in partenza, che hanno portato un po´ di democrazia. Il valore di quest´ultima, nei limiti in cui è stata realizzata, è giudicato dai più inferiore a quello della sicurezza.
Neanche un saluto! Eppure quel milione e più di soldati non erano fantasmi. I fantasmi non muoiono e qui di americani ne sono morti quattromila quattrocento. E nei sette anni di loro presenza almeno centomila iracheni sono morti, secondo calcoli al ribasso. Probabilmente il doppio. La stragrande maggioranza degli iracheni comuni non ha avuto contatti normali diretti con gli americani. Anche questo spiega la freddezza per la loro partenza. Li ha visti insaccati nelle loro tute, nascosti dietro lenti scure, con le armi puntate, che sfrecciavano a bordo di veicoli blindati (gli Humvees) nelle città e villaggi. Nessuno si è mai imbattuto in un militare americano isolato, e ancor meno disarmato, in una strada di Bagdad. E ancor meno in un caffè in compagnia di una donna o di un amico autoctono. Lo impedivano tante cose: i costumi locali, la diffidenza, e anzitutto il rischio di essere presi di mira da un terrorista. Quindi uccisi o rapiti.
Un esercito di centosettantamila uomini (quale era quello americano negli anni più intensi del conflitto) fa vivere un folto numero di persone addette ai servizi o di commercianti. Non è stato cosi in Iraq. Escluso un esiguo numero di iracheni, i civili impiegati nelle basi militari, o attorno ad esse, erano e sono stranieri: se non americani, provenienti da Paesi emergenti. Dalle Filippine all´India. Oppure dall´America Latina e dall´Europa. Da fuori, dall´estero, venivano anche i viveri. Acqua minerale compresa. Sul piano dei normali contatti umani (e in gran parte anche di quelli economici) è stato un esercito di fantasmi.
Tra quarantotto ore ne rimarranno soltanto cinquantamila, non più ufficialmente «combattenti», ma nella veste di consiglieri. E con loro resta una Bagdad che sembra un campo trincerato. Una capitale sfregiata da centinaia di chilometri di muri di cemento armato, dietro i quali sono trincerati ministeri, caserme, alberghi, case private, interi quartieri. E strade sfondate, spesso sommerse dalle immondizie, ed edifici diroccati, feriti dalle autobombe dei kamikaze. Al centro della metropoli la famosa Green Zone, città nella città dove sono rinchiusi vip politici e rappresentanze diplomatiche. Anzitutto quella degli Stati Uniti. Loro al sicuro, blindati, e noi fuori, esposti a tutte le insidie. È inevitabile, ma non suscita simpatia.
La situazione è paradossale, mi dicono i redattori di Al Sabah (Il Mattino), quotidiano governativo. Paradossale perché la parziale partenza degli americani è fonte al tempo stesso di soddisfazione e di paura. Il ritiro delle truppe di occupazione appaga l´orgoglio nazionale, ma accentua l´angoscia per la sicurezza. Ed anche la sfiducia nelle autorità nazionali, che non sono neppure in grado di assicurare acqua ed elettricità.
La raffica di attentati quasi simultanei di mercoledì scorso (cinquantasei morti e centinaia di feriti in tredici città, a nord e a sud del Paese) ha dimostrato che l´opposizione armata, ormai dedita soltanto al terrorismo, è in grado di promuovere operazioni a vasto raggio. E non è garantito che polizia ed esercito nazionali siano in grado di affrontarle o prevenirle.
Gli attentati del 25 agosto sono subito stati rivendicati da Al Qaeda (la versione irachena, che unisce varie organizzazioni clandestine), con un comunicato in cui si dice che «le ali della vittoria spazzeranno via anche il nuovo giorno».
Una frase che sembra una sfida alla «Nuova Alba», il nome dato dagli americani all´operazione che comincia il primo settembre. Il primo ministro Nuri al-Maliki ha subito reagito ordinando a esercito e polizia di intensificare la sorveglianza (ha dichiarato l´«allerta massima») e con un messaggio televisivo ha invitato gli iracheni a tenere gli occhi aperti, a denunciare senza esitare qualsiasi movimento sospetto.
Mercoledi sarà un giorno cruciale. Il generale Oderno, comandante delle truppe Usa, passerà le consegne a un generale iracheno, e poi lascerà Bagdad. E da quel momento gli americani che restano non saranno più, almeno ufficialmente, dei «combattenti». Reale o fittizia, la transizione ha un forte valore simbolico.
In un ristorante sulla riva del Tigri, a tarda sera, alla fine del quotidiano digiuno del Ramadan, incontro un notabile politico della città di Falluja, dove si trovano numerosi appartenenti a Sawa. Sawa è la milizia creata dagli americani con i sunniti recuperati dall´insurrezione armata. Molti erano militari dell´esercito di Saddam. In un primo tempo si sono alleati con Al Qaeda per opporsi al potere degli sciiti e agli americani, poi hanno finito per divorziare dagli integralisti religiosi che praticavano il terrorismo. E si sono affiancati agli americani. Adesso, mi dice l´uomo di Falluja, i capi di Sawa si preparano a formare gruppi di autodifesa autonomi. Si aspettano infatti un´influenza sempre più forte degli iraniani sulle autorità sciite che controllano esercito e polizia. E quindi non si fidano. Pensano che Teheran colmerà il vuoto lasciato dagli americani e spingerà i partiti sciiti ad inasprire l´ostilità nei confronti dei sunniti. Destinati ad essere ancor più emarginati. A Falluja sono convinti che gli iraniani agiscano sia a livello politico, sia nella clandestinità.
Chiedo al notabile di Falluja se l´Iran non sia diventata un´ossessione. E lui, per provare quel che afferma, mi dà elementi che non sono ovviamente in grado di verificare. All´Iran sono attribuiti, non sempre a torto, molti dei malanni che affliggono il Paese, mentre gli americani allentano la presa. Sarebbero loro, gli iraniani, grazie ai rapporti con i partiti sciiti iracheni, a rendere ancora impossibile, o difficile, la formazione di un governo sei mesi dopo le elezioni legislative di marzo. E sarebbero sempre loro ad alimentare il terrorismo, attraverso gruppi clandestini su cui esercitano una forte influenza.
Tra i tanti paradossali effetti dell´intervento americano in Iraq forse il più ricco di conseguenze è l´emergere di una maggioranza sciita. Essa è senz´altro legittima, perché uscita dalle urne, ma è anche sconvolgente, perché ha risvegliato dopo secoli lo slancio di una comunità a lungo frustrata, che ora vive un clima risorgimentale. Ed essa esige il potere a Bagdad, ma è divisa, rissosa al suo interno, e non riesce a realizzare il suo secolare progetto. Lo slancio sciita iracheno favorisce per molti aspetti l´Iran, potenza sciita e principale nemico degli Stati Uniti. Questo mette in allarme l´intero mondo sunnita. Arabia Saudita in testa. Insomma l´Iraq è diventato un campo di battaglia, in cui intervengono tante forze straniere, e sul quale gli americani, perlomeno in apparenza, limitano il loro intervento. Questo fa pensare al tragico Libano degli anni Ottanta. Ma assai più grande.