Francesco Borgonovo, Libero 28/8/2008, 28 agosto 2008
ARCHIVIO FALLACI
«È innegabile che si tratti di carte e documenti di mia zia. Sono sicuramente appunti per ricerche, dettagliatissimi, annotati. Lei lavorava così». Edoardo Perazzi, il nipote di Oriana Fallaci che si occupa di curare l’archivio della grande giornalista fiorentina, guarda le fotografie in possesso di Libero e conferma: il materiale messo in vendita su internet giovedì pomeriggio è originale.
In queste pagine vi mostriamo alcune immagini dei documenti. Come potete vedere, sono tutti evidenziati, segnati e chiosati dalla Fallaci. In alcuni casi, si tratta di dattiloscritti; in altri, invece, di annotazioni di suo pugno. Si tratta di una piccola parte di un archivio che ammonta a 50 libbre di carte (circa 22,5 chili) e che ieri è stato messo in vendita sul sito www.abebooks.com da un libraio di Toronto, in Canada. Ben Katz, questo il nome, ha spiegato al nostro giornale di aver acquistato tutto da un grande rivenditore del New Jersey, il quale a sua volta ha ottenuto la merce a un’asta in Delaware o Maryland.
Il nostro acquisto
Come abbiamo raccontato ieri, Libero ha avviato le pratiche per acquistare questo archivio, valutato online poco meno di 30mila dollari americani. Il materiale, a prima vista, pareva autentico e le dichiarazioni di Perazzi sembrano confermare. Questi documenti non contengono novità sconvolgenti sulla figura di Oriana, ma rivelano nel dettaglio il suo modo di lavorare e di certo hanno un’importanza filologica non da poco.
Come si può capire dal contenuto dei fogli, siamo davanti con tutta probabilità al frutto delle ricerche per la stesura di Un cappello pieno di ciliege, ovvero il romanzo postumo della Fallaci uscito nel 2008 e subito divenuto un bestseller.
Caccia alle notizie
All’epoca della pubblicazione del librone, Libero intervistò Claudio Riva, responsabile dell’Archivio vescovile di Cesena, il quale raccontò che Oriana era precisissima nelle richieste. Voleva sapere tutto della città romagnola dove era nata la nonna Giacoma Ferrier: dagli orari dei treni al costo dello zucchero. Una indagine quasi maniacale, ma necessaria per produrre una delle opere più importanti nella bibliografia della Grande Toscana, quella che racconta la storia della famiglia. Solo grazie a questa sfiancante e scrupolosissima ricerca le è stato possibile inserire particolari come questo nella storia: «E pazienza se in prima il biglietto Torino-Cesena costava 46 lire e 10 centesimi». Quanta fatica è costato sapere il costo di quel biglietto!
Riva confermò che Oriana aveva svolto ricerche col medesimo metodo anche in altre parti d’Italia, compresa ovviamente la sua regione. Non a caso, l’iter per la composizione del Cappello durò anni e anni. Nei documenti che vedete qui, c’è la prova del tipo di lavoro che svolgeva.
Nello specifico, si tratta per lo più di materiale su Livorno, sul
trattamento degli schiavi in città verso la fine del Settecento. «A quel tempo era la seconda città della Toscana, Livorno, e nel resto del mondo famosa quanto Firenze. Non a caso costituiva una tappa obbligatoria del Grand Tour che i viaggiatori stranieri facevano in Italia», scrive la Fallaci nel Cappello.
Ed ecco il risultato della minuziosa inchiesta svolta da Oriana sulla schiavitù: oltre cinque pagine del romanzo fitte di dati: «D’accordo, gli schiavi c’erano anche a Livorno», spiega, dopo aver decantato le numerose libertà che si godevano in città. «Per un secolo e mezzo le Galere del Gran Diavolo li aveva scaricati lungo le banchine del porto, e sia il Fosso Reale che i canali di Nuova Venezia li avevano scavati loro. Non a caso nella darsena vecchia si ergeva dal 1617 il Monumento ai Quattro Mori: gli splendidi e tragici bronzi che raffigurano quattro barbareschi o turchi incatenati agli angoli del piedistallo sul quale poggia la statua di Ferdinando I de’ Medici vestito da cavaliere di Santo Stefano».
Dice Oriana che «i turchi e i
barbareschi detenuti a Livorno erano sempre pirati, nemici presi in battaglia, mai Danielli rapiti a scopo di lucro». E racconta: «Più che schiavi venivano giudicati prede di guerre e quindi tenuti meglio dei fiscalini. Contrariamente ai fiscalini, infatti, non portavano né il collare di ferro né la palla al piede. Per i lavori di scavo e di remeggio riscuotevano una paga che superava di quattordici soldi la loro, nei giorni di festa mangiavano lo stesso vitto dei marinai a terra, e nei giorni feriali tre libbre di pane col baccalà o un minestrone di verdura. Non erano nemmeno vestiti male. Ogni primavera il corredo gli veniva rinnovato con due camicie, due paia di pantaloni, quattro di calzini, una giacca di stametto, un copricapo del medesimo panno, scarpe ferrate e un cappotto chiamato schiavina».
Nomi, date, dettagli. Leggete queste righe poi guardate i documenti che pubblichiamo. Così è nato un mito. Così lavorava Oriana Fallaci