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 2010  agosto 30 Lunedì calendario

Sono lontani i tempi dei conquistadores spagnoli e dell’olocausto di indios nelle miniere andine, quasi ignorato in Europa ma che solo nella boliviana Potosí ne ammazzò otto milioni in tre secoli

Sono lontani i tempi dei conquistadores spagnoli e dell’olocausto di indios nelle miniere andine, quasi ignorato in Europa ma che solo nella boliviana Potosí ne ammazzò otto milioni in tre secoli. Ma alla base della tragedia dei 33 minatori prigionieri da quasi un mese sotto il deserto di Atacama ci sono «avidità, corruzione e disprezzo di ogni forma di sicurezza dei lavoratori» che nel Cile del 2010 non dovrebbero esistere. La denuncia viene dalla Federación minera de Chile, che rappresenta 12 mila minatori in un Paese dove le risorse del sottosuolo contano per il 15% del Pil e il 57% dell’export. Ma dove i sindacati, falciati dalla dittatura di Pinochet, ancora oggi hanno una forza molto relativa. Il nonno Ramon Avalo, 81 anni, piange pensando ai due nipoti Renan e Florencio chiusi nella miniera. Sotto: il ricordo di un altro minatore O non contano proprio, come a San José. La piccola miniera di rame e oro di Alejandro Bohn e Marcelo Keneny era già stata chiusa nel 2007, dopo un incidente mortale per inosservanza della sicurezza. Ma nel 2008, ricorda il sindacalista Javier Castillo, fu riaperta senza installare la scala d’emergenza nei corridoi di ventilazione: obbligatoria per legge, avrebbe ora permesso l’uscita dei 33. Allora, invece, i dipendenti sindacalizzati furono licenziati, sostituiti con altri pronti a tutto per nemmeno 1000 dollari al mese, senza assicurazioni, mutua e contributi. Alla base della riapertura della «maldita mina» ci furono probabilmente bustarelle. E l’ignavia dello Stato, che ha permesso il crearsi di enormi ricchezze con i minerali (il Cile è il primo esportatore di rame) affidando il controllo di 5 mila miniere a soli 18 ispettori. Bohn e Kemeny hanno finora respinto «ogni responsabilità»: per il timore che dichiarassero bancarotta e non pagassero nemmeno gli stipendi, un tribunale ha congelato 1,8 milioni euro della loro società. Ma finiranno presto sul banco degli imputati, dopo le denunce avanzate dalle famiglie dei minatori. Se le emozioni suscitate dai 33 sepolti vivi non diminuiscono, se perfino il Papa ieri ha invocato San Lorenzo, protettore di minatori, perché restino sereni fino alla liberazione, gli aspetti politici e legali del caso stanno iniziando a riempire i media latinoamericani. Insieme alle questioni tecniche. La più importante: il sistema di salvataggio dei 33 che finora era ritenuto impossibile prima di quattro mesi. Ieri le autorità cilene hanno annunciato un «piano B» che dimezzerebbe i tempi. Accanto alla perforatrice Strata 950 che da oggi trivellerà in pieno terreno verso il rifugio, entrerà in funzione una seconda macchina in arrivo da una miniera vicina. Più potente, amplierà un condotto esistente e forse in meno di due mesi arriverà a un’officina che i minatori possono già ora raggiungere. Non sarà la trionfale (e propagandistica) liberazione che il presidente Pinera vorrebbe per il 18 settembre, bicentenario dell’indipendenza del Cile. Ma sarebbe la fine di un incubo durato già ora fin troppo.