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 2010  agosto 28 Sabato calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 30 AGOSTO 2010

Dal 13 agosto in Cina, sull’Autostrada 110 che collega Pechino alla Mongolia interna, auto e camion sono intrappolati in cento chilometri di coda a una velocità che dall’iniziale chilometro al giorno il 25 agosto era salita a un chilometro l’ora. Secondo le autorità il traffico tornerà alla normalità solo a settembre, quando i cantieri stradali che hanno contribuito a provocare il disastro chiuderanno. [1] Simone Pieranni: «Il paese recentemente diventato la seconda economia del mondo si trova così negli annali dei record stranieri, sintetizzando tutte le proprie contraddizioni in una fila interminabile di camion». [2]

L’ingorgo sarebbe stato ingigantito dal fatto che sulla 110 passa gran parte del trasporto illegale di carbone. Simone Pieranni: «La Cina si affida ancora al carbone per il 70% del suo fabbisogno energetico. Prima le miniere erano per lo più nello Shanxi, ma le morti, le inondazioni, i disastri hanno portato il governo a chiudere nel giro di due anni il grosso delle miniere, finendo per fare diventare la Mongolia Interna, a nord della capitale, il principale canale di raccolta del carbone». Nel futuro dovrebbe essere usata maggiormente la regione autonoma del Xinjiang, il che «potrebbe creare situazioni di traffico ancora peggiori di quella appena vissuta». [2]

Lo sviluppo cinese poggia su infrastrutture deficitarie in molte zone del paese, in cui i collegamenti principali avvengono spesso su strade piccole e poco attrezzate per ricevere l’ingente quantità di auto e camion che aumenta ogni giorno. [2] Con oltre 13 milioni e mezzo di veicoli venduti nel 2009, la Cina è ormai il primo mercato dell’auto. Nella sola Pechino ci sono 1.900 immatricolazioni al giorno. Marco Del Corona: «Le stime del Centro di ricerca sui trasporti di Pechino indicano che da qui al 2015 il numero delle auto nella capitale raddoppierà e con 7 milioni di vetture in circolazione la velocità media scenderà a 15 km/h». [1]

A luglio la Cina è stata colpita dalle piogge più torrenziali dal 1953. Tre quarti delle regioni sono state sconvolte da inondazioni (almeno 700 morti e 300 dispersi). Ventisette province hanno avuto oltre il 60% del territorio allagato, quasi 120 milioni di cinesi hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni. Secondo gli ambientalisti la gigantesca diga delle Tre Gole (inaugurata nel 2006, è la più grande del mondo) ha aumentato gli straripamenti a causa dei giganteschi rilasci d’acqua. [3] Qualcuno sostiene anche che la pressione della diga sulle fragili faglie sottostanti sarebbe responsabile del più potente terremoto nella storia della Cina moderna, quello del 12 maggio 2008 (7,8 gradi sulla scala Richter, epicentro nel distretto di Wenchuan). [4]

Finora lo sviluppo cinese ha avuto esiti virtuosi. Luigi Ippolito: «Se la recessione non si è trasformata in grande depressione, è stato anche perché la locomotiva cinese non ha smesso di correre. E a quanti prevedono smottamenti mondiali in seguito all’inevitabile rallentamento della crescita di Pechino, altri fanno osservare che è come discutere della differenza fra essere investiti da un treno che va a cento all’ora e uno che va a settanta: il risultato è lo stesso». [5] Il problema è che adesso la Cina sembra non saper che fare per non smettere di crescere. [6]

Un’invisibile Grande Muraglia divide le megalopoli della costa dalle campagne dell’interno, qualche migliaio di ricchi da un miliardo di poveri, chi nasce in una città da chi è figlio di un paese. Giampaolo Visetti: «Sono vent’anni che è così. La gente però adesso è spaventata da un’accelerazione senza precedenti, che rende incolmabile la distanza. Mai tante persone di livello così diverso hanno convissuto in un medesimo territorio. La doppia Cina si sta in realtà spaccando in tre. Nella prima, 800 milioni di contadini e 200 milioni di migranti senza diritti tirano avanti con un reddito medio di 17 euro al mese». [6]

Nella seconda Cina 250 milioni di impiegati e piccoli imprenditori con qualche privilegio (reddito 2 mila euro l’anno) si concentrano nelle metropoli. Nella terza, 50 milioni di funzionari di partito, leader politici e miliardari di famiglia si spartiscono enormi risorse in una decina di capoluoghi di contea. Visetti: «La Cina è oggi al secondo posto nel mondo sia per poveri, dietro l’India, che per ceto medio, dietro l’Europa, che per ricchi, dietro gli Usa. Entro cinque anni sarà prima in tutte le fasce e l’ennesimo record inizia a non sembrare più una consolazione». [6] Tra l’altro la demografia non sta più dalla sua parte ma da quella dell’India che grazie e natalità e progresso economico entro il 2030 decuplicherà il suo ceto medio. [7]

La politica del figlio unico, imposta tra fine anni Settanta e primi Ottanta da Deng Xiaoping, ha fatto della Cina un Paese con troppi uomini e troppi vecchi. Se normalmente il rapporto fra maschi e femmine dovrebbe essere di 107 a 100, in Cina l’anno scorso erano arrivati a 120,56. Del Corona: «Nell’82 i cinesi sopra i 65 anni erano il 4,9%, nel 2005 il 7,6% e saranno il 28,4% nel 2026». In un Paese senza un vero Stato sociale, in cui la previdenza è lasciata a risorse individuali e cura filiale, l’impatto di una progressione simile è evidente: secondo il China Youth Daily il 67,5% dei giovani teme l’onere eccessivo dell’assistenza ai genitori. [8]

Da vent’anni la Cina ha smesso di abbattere la miseria. Visetti: «Il tenore di vita, per chi sta sotto, dal 1995 è raddoppiato. Per chi danza sulla cima si è moltiplicato per otto». [6] L’invecchiamento della popolazione rende sempre più sfavorevole per le aziende straniere operare in Cina: nel mercato del lavoro, infatti, entrano sempre meno giovani, i preferiti da chi vuole assumere in loco. Le cose sono inoltre complicate da aspettative in rapida evoluzione. Minxin Pei: «I cinesi nati dopo la Rivoluzione Culturale del 1966-1976 mostrano meno tolleranza nei confronti di prospettive di lavoro faticoso e poco retribuito». [9]

Alla fine del primo decennio del XXI secolo, la Cina non sembra più il paradiso per gli investimenti all’estero. A maggio gli operai di una fabbrica nella quale si assembla la Honda, insoddisfatti per i loro bassi stipendi e per il lungo orario di lavoro, sono entrati in sciopero, costringendo lo stabilimento alla chiusura per due settimane. Minxin Pei: «Inspiegabilmente, il governo cinese - di solito abituato a intervenire tempestivamente e a mettere dietro le sbarre gli attivisti - non ha fatto niente. Foxconn, la più grande fabbrica al mondo di prodotti elettronici, che assembla gli iPhone e i computer Dell, è stata costretta ad aumentare gli stipendi del 33 per cento dopo che dieci operai si sono suicidati all’interno dello stabilimento stesso». [9]

La rabbia delle masse per la crescente diseguaglianza sociale terrorizza i nuovi ricchi cinesi. Minxin Pei: «Ai tempi in cui la Cina era un Paese povero, Deng Xiaoping, il grande riformatore, pronunciò la famosa frase: “Essere ricchi è essere gloriosi”. Evidentemente molti cinesi hanno tenuto conto della sua chiamata. E i risultati dell’ultimo trentennio sono mozzafiato. La Cina sta ora sfornando miliardari a una velocità maggiore di quella di qualunque altro paese al mondo. Ma insieme alla gloria arriva il pericolo. Come i loro cugini russi, i miliardari cinesi si confrontano con un rischio occupazionale terrificante: essere trascinati in prigione dal loro autocratico governo con ben poche tutele legali». [10]

Molti dei più ricchi magnati cinesi sono in carcere. Minxin Pei: «In Cina, anche gli imprenditori privati di maggiore successo hanno bisogno di essere protetti politicamente per restare in affari. I funzionari del governo cinese che appaiono come i comunisti più favorevoli al business della storia mondiale, sanno perfettamente che soltanto loro detengono il potere di permettere o meno che un imprenditore privato faccia fortuna. La ragione è abbastanza semplice: agli occhi del mondo, la Cina sembra un’economia di mercato, ma in realtà il governo controlla ancora la maggior parte delle risorse economiche più importanti quali la terra, l’accesso al credito e i permessi per gestire affari ed attività imprenditoriali. Ciò significa che un imprenditore deve essere amico - corrotto - di qualche funzionario di governo per poter fare qualcosa». [10]

Xie Jianshe, ex analista finanziario di Hong Kong adesso finanziere a Shanghai, spiga che tutto dipende dela fatto che la Cina resta un Paese comunista. Visetti: «L’esempio è quello della crisi. Per superarla, Pechino, tra gli applausi, ha messo sul piatto 586 miliardi pubblici. Ha finanziato strade e ferrovie, vecchie fabbriche e grattacieli. Anche i terreni sono pubblici, come le banche che concedono i prestiti. Per fare soldi e carriera i 45 milioni di funzionari locali hanno messo i lotti all’asta. Ad aggiudicarseli, assieme ad appalti e prestiti, i 75 milioni di iscritti al partito». [6] Se gli operai sono in agitazione, le ribellioni nelle campagne si contano a migliaia. Federica Bianchi: «La rabbia nasce dalle dispute relative alla quantità sempre maggiore di terra confiscata dai governi locali e venduta a basso prezzo ai costruttori in cambio di un risarcimento ai contadini ben al di sotto del suo valore». [11]

Urbanizzazione ed esportazioni sono le due gambe della crescita cinese (ancora oltre l’8% annuo). Xie Jianshe: «La prima è finta, come la bolla immobiliare che le banche alimentano e controllano per ordine di partito. Le seconde riguardano merci a basso contenuto tecnologico, prodotte da stranieri per calmare l’inflazione all’estero». Molti milionari, a Hong Kong e a Shanghai, pensano che questa Cina resiste solo perché è ancora necessaria. Visetti: «Sostiene l’Occidente e soprattutto si mantiene, grazie a milioni di cinesi terrorizzati dal non poter rimborsare i beni spinti ad acquistare senza avere i soldi. Non è poco, ma il consumato filo non si strappa ad una condizione: l’assenza di riforme». [6]

Aumentare i costi e riconoscere ai giovani il diritto di non essere schiavi farebbe fuggire le imprese estere. Per questo il governo è diviso. Visetti: «Il resto del pianeta aggiorna semplicemente l’agenda: modernizzare in fretta infrastrutture e tecnologia di India, Vietnam e Cambogia, per trasformarle nelle Cine promesse del prossimo Oriente. L’originale si imbatte nei guai dello sviluppo: entro il 2030 il 70 per cento della popolazione cinese vivrà in città da settanta milioni di abitanti, il 90 per cento dei nuovi colletti bianchi manifesta problemi di equilibrio nervoso, il reddito medio dei laureati in dieci anni è sceso da 580 a 260 dollari al mese. L’operaio cinese si ribella e il mondo, sperando ma non troppo che trovi il suo Lech Walesa, taglia discretamente la corda». [12]

Note: [1] Marco Del Corona, Corriere della Sera 26/8; [2] Simone Pieranni, il manifesto 26/8; [3] Giampaolo Visetti, la Repubblica 22/7; [4] F. Si., La Stampa 13/5/2008; [5] Luigi Ippolito, Corriere della Sera 26/8; [6] Giampaolo Visetti, la Repubblica 19/3; [7] Federico Rampini, la Repubblica 29/1: [8] Marco Del Corona, Corriere della Sera 25/6/2009; [9] Minxin Pei, L’espresso 22/7; [10] Minxin Pei, L’espresso 24/6; [11] Federica Bianchi, L’espresso 30/4/2008; [12] Giampaolo Visetti, la Repubblica 1/6.