ALBERTO PAPUZZI, Tuttolibri-La Stampa 28/8/2010, pagina VIII, 28 agosto 2010
Intervista a Gad Lerner - “Le mille scintille del mio ebraismo” - E’ l’immagine qabbalistica del gilgul, moto vorticoso delle anime, che Gad Lerner richiama all’inizio di Scintille (Feltrinelli) il suo libro, uscito nel novembre scorso, giunto già all’ottava edizione e in corsa per vincere il Campiello, sabato 4 settembre a Venezia
Intervista a Gad Lerner - “Le mille scintille del mio ebraismo” - E’ l’immagine qabbalistica del gilgul, moto vorticoso delle anime, che Gad Lerner richiama all’inizio di Scintille (Feltrinelli) il suo libro, uscito nel novembre scorso, giunto già all’ottava edizione e in corsa per vincere il Campiello, sabato 4 settembre a Venezia. La richiama per descrivere la ricerca attorno alla sua famiglia, e al mondo ebraico, da cui è oggi affascinato e che è il cuore del libro. Il quale non è un romanzo ma neppure un saggio, piuttosto è la storia di un «esilio delle anime», espressione tratta dal maestro cabbalista Chaim Vital, autore nel sedicesimo secolo di un trattato che, tradotto, suona La porta delle recriminazioni. Dentro il vagabondaggio delle anime c’è una rete di percorsi, fra Biroslaw, Haifa, Aleppo, Beirut, Milano, Tel Aviv, e ci sono le incomprensioni con il padre, che si autodefinisce il vero Lerner, ma anche un difficile rapporto con la madre. Dall’ansia di ricomporre le mille scintille di una memoria familiare dispersa e negata, riflesso di più epocali traumi, parte il dialogo sul rapporto che Lerner intrattiene con i libri. Il lavoro di scavo, nel suo passato, in quello dei suoi genitori e di tanti altri familiari, domina anche le sue letture? «Diciamo che seguo dei filoni di una ricerca che oggi è principalmente dedicata all’ebraismo. In realtà c’è stato un passaggio nella mia vita, tanto per cominciare ho superato i cinquant’anni, che è una soglia significativa. Confesso anche un certo appagamento, ho avuto una vita sicuramente fortunata, anche economicamente. Vivo in totale gratitudine per tutto ciò che ho avuto. So anche che sono alla fine di una certa fase: non farò televisione sino all’ultimo. Non farò televisione per sempre e questo è un motivo di relax, non ho più l’ansia di una volta. Cosa voglio allora? Cercare la relazione, che tutti abbiamo, con la parte inconsapevole, con la sfera dell’introspezione. Con le inquietudini, con le nevrosi. L’ebraismo è un eccezionale filo logico per questo tessuto. Ci sono i sogni e la loro interpretazione, c’è la psicoanalisi, c’è Freud prima di Freud. Allora Scintille, di cui ho parlato con Carlo Feltrinelli per dieci anni, è tutto questo». Lei scrive, in «Scintille», che «un silenzio assoluto ha ricoperto la sorte dei familiari caduti preda del Terzo Reich». «Questa era materia mai entrata dentro le mura domestiche. Si viveva un esasperato bisogno di dissimulazione: di certe cose assolutamente non si parlava. Per cui si viveva nel rimpianto di un’epoca d’oro che in realtà aveva visto nostri familiari coinvolti nella guerra israeliana d’indipendenza e altri familiari perseguitati e sterminati nell’Europa degli Anni 40. Non avevamo neanche una formazione biblica, si celebravano solo le grandi feste come il Kippur o Pesach. C’era un vuoto che ho dovuto colmare da adulto». Si può immaginare che nella sua casa i libri non mancassero: è così? Lei ha avuto confidenza coi libri fin da bambino? «Non in maniera speciale. In mia madre c’era un amore per la letteratura francese, perché francese era la cultura del Libano da cui venivamo, in seguito unita all’ansia di incontrare la narrativa italiana, Natalia Ginzburg o Carlo Cassola. Invece da parte di mio padre c’era un blocco, una evidente difficoltà sia sul piano linguistico sia di approccio culturale». E lei? E’ stato un lettore precoce? «Io sono stato un lettore precoce, di un filone che direi molto risorgimentale. Ricordo in particolare le letture suggerite dalle celebrazioni per il centenario dell’Unità d’Italia. Nel 1961 avevo 7 anni e una voglia d’integrazione nel mondo in cui eravamo arrivati a vivere. La mia era una ricerca di italianità, per cui Piccolo alpino di Salvator Gotta, tutto quello che si poteva leggere su Garibaldi e i Mille, naturalmente De Amicis». Perciò non leggeva i classici per ragazzi, da Verne a Salgari? «Sì, poi sono arrivati I ragazzi della via Paal, e Salgari e gli altri, come un passaggio che si direbbe naturale verso i grandi romanzi di formazione». Veniamo alla sua stagione d’impegno e militanza politiche, in Lotta continua. Ricorda un libro che abbia inciso in maniera determinante in quella scelta? «Io avuto la fortuna, fra le più grandi, di aver incontrato veri maestri, fin dall’adolescenza. Per quanto riguarda la formazione politica, in realtà io sono entrato in Lotta continua nel 1973, piuttosto tardi, mentre più importante è stato per me il rapporto con il piccolo gruppo milanese di Giovanni Arrighi, che fu economista e sociologo all’Università di Baltimora, e che è morto un anno fa. Lui, che era in rapporto con la sinistra americana, Laura Beccalli e Luisa Passerini sono persone cui devo enorme gratitudine perché costringevano a una visione cosmopolita. Poi incontrai Grazia Cherchi e Goffredo Fofi. Venivano a trovarmi a casa mia, Grazia portando sempre un sacchetto con libri di narrativa italiana che dovevo leggere e controllava che leggessi. Lei mi ha fatto conoscere Paolo Volponi e Giovanni Giudici. In Lotta continua, invece, fu fondamentale Alexander Langer: essendo figlio di una terra storicamente di comunità divise, si mostrò molto interessato alla mia vicenda personale e mi spinse a viaggiare in Medio Oriente». A settembre esce, nell’Universale Feltrinelli, con una sua nuova prefazione, una riedizione di «Operai», il libro che lei scrisse nel 1988 sullo sfaldamento della classe operaia. All’epoca ci fu chi lo prese come una provocazione e chi lo considerò una analisi anticipatrice. Come nacque questo libro, che effettivamente fu un po’ un caso? «Se la sinistra rinunciava alla tesi della centralità della Classe operaia (con la C maiuscola), come classe generale dello Stato, che liberando se stessa libera l’umanità intera, allora l’operaio perdeva interesse, non era più il tramite per la conquista del potere. Io non credo che Operai fosse un’analisi anticipatrice: ricordiamoci che c’era già stata la marcia dei quarantamila. No, fu un reportage giornalistico, in aspettativa dall’Espresso per sei mesi, girando freneticamente stabilimenti industriali e comunità operaie in tutta Italia, venendo aiutato da una persona cui sono rimasto sempre legato, il sociologo e sindacalista Bruno Manghi». Ma che tipo di lettore è Gad Lerner: onnivoro? Famelico? Oppure uno che seleziona abilmente le sue letture? «Intanto ho due piani di lettura: per lavoro e per piacere. Anche per il mio lavoro televisivo, leggo molto. Io non mi dedico alla regia, non sto in sala montaggio, ciò che fa la differenza tra L’infedele e altri talk-show è che mi sforzo di prepararmi leggendo quanti più libri posso, per sfornare nuove idee e trattare nuovi problemi. Prendo furiosamente nota sul margine di questi libri, che sono tutti pasticciati e pieni di orecchiette». Venendo alle letture per piacere ci può dire un libro che assolutamente non avrebbe potuto non leggere? Il libro in cui si riconosce? «Una storia d’amore e di tenebra, autobiografia di Amos Oz, uscito da Feltrinelli nel 2002, che integra come raramente si vede biografia e storia, vicenda intima e vicende del mondo. Nessuno ha saputo come lui tenere insieme questi opposti. Cosa che gli è riuscita solo sputando il rospo del suicidio di sua madre, la prima volta che decideva di parlarne. Dopodiché a 14 anni si rifugia nel kibbutz, ma deve arrivare a 70 per tirar fuori tutto. Di segno opposto, ma altrettanto potente nel tenere insieme i due elementi, storia personale e Storia pubblica, è Viaggio al centro della notte di Céline». E un autore italiano? «Una delle ragioni per cui il mio primogenito si chiama Giuseppe è La Storia della Morante». Invece, una scoperta? «Un capolavoro letto di recente è Migrazioni, dello scrittore serbo Milõs Cmnjanski, pubblicato da Adelphi, straordinaria rappresentazione dei trasferimenti di popoli e culture, dall’impero degli Asburgo a quello degli Zar, dove capisci come nascano e operino i nazionalismi, ma anche pagine di intensa sensualità, delle donne serbe, di cui senti tutta la carnalità. Un capolavoro, ripeto, poco conosciuto». Lei come ci è arrivato? «Grazie ai buoni consigli di ottimi amici più colti di me».