ATTILIO BOLZONI, la Repubblica 27/8/2010, 27 agosto 2010
RITORNA LA STRATEGIA DELLA TENSIONE "VOGLIONO FERMARE IL NUOVO CORSO"
Con i grandi processi aperti e tutte le rogne che si ritrova, la ‘ndrangheta forse ha sbagliato mossa. Se quella bomba è soltanto sua, i capi mafiosi hanno fatto male i conti e pagheranno cara anche questa scorribanda dinamitarda. Ma nella Reggio che butta fumi come un vulcano, oggi non c´è solo la ‘ndrangheta a piazzare ordigni e a seminare terrore. C´è qualcun altro che vuole mettere paura allo Stato.
Fra avvertimenti e ricatti c´è chi vuole fermare il «nuovo corso» calabrese, la prima risposta organizzata e collettiva contro un potere politico mafioso dove i boss non sono certo soli e non sono certo gli unici protagonisti della campagna di guerra scatenata contro magistrati e giornalisti, poliziotti e dirigenti pubblici, amministratori, imprese. «È la stessa mano», dicono a poche ore dall´ultimo attentato al procuratore generale Salvatore Di Landro. «È la stessa mano», ripetono gli investigatori collegando la bomba della notte a tutti gli altri segnali lanciati in questo 2010 che per Reggio Calabria è stato l´anno decisivo per un suo riscatto.
Attentati che puzzano di sabotaggio, il fuoco nemico che a volte sembra fin troppo fuoco amico, mafia e dintorni, Padrini in contatto con uomini dei servizi segreti, apparati mischiati alle cosche, un legame antico che – come a Palermo – anche qui si manifesta in un grumo vischioso che tenta di condizionare le scelte strategiche dell´antimafia giudiziaria e poliziesca, che cerca di frenare le indagini sulla Cupola politico-affaristica della città, che avvelena, insudicia, depista. L´obiettivo: far tornare indietro Reggio, farla tornare come era prima. E nelle mani dei soliti ignoti: i mafiosi e gli amici dei mafiosi infiltrati nello Stato.
La strategia della tensione è partita all´inizio di gennaio e due sono i fronti bersagliati dagli atti intimidatori, come in una morsa. Uno è quello formato dagli «stranieri» arrivati a Reggio, il pool di magistrati (il procuratore capo Giuseppe Pignatone, il suo vice Michele Prestipino), il capo della squadra mobile Renato Cortese, ufficiali della Finanza e dell´Arma dei carabinieri, una squadra di giudici e di investigatori di eccellenza che stanno praticamente rivoltando la città – e la Piana di Gioia Tauro e la Locride – come un calzino.
Per la prima volta la ‘ndrangheta ha subito danni strutturali, è stata disarticolata militarmente, è stata colpita nelle sue relazioni esterne. Contro gli «stranieri» sono stata scaricate valanghe di minacce, anonimi che coinvolgevano anche il presidente di Confindustria Sicilia Ivan Lo Bello e il procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari (quello che indaga sulle stragi di Capaci e di via Mariano D´Amelio), un avvertimento generale al blocco dello Stato che ha determinato il grande cambiamento in Calabria. «Ma tutti quelli, tanto, prima o poi se ne andranno», si sussurra nelle stanze segrete di Reggio dove aspettano che la tempesta passi.
L´altro fronte attaccato è quello che comprende i «locali», i magistrati e gli investigatori e anche i giornalisti calabresi. La bomba della notte contro il procuratore generale rientra in quest´altra offensiva: la sfida a chi è del posto, a chi resterà in Calabria per sempre. È la terza volta che Di Landro è sotto minaccia, un trattamento molto «personalizzato» per come il neo procuratore generale ha messo ordine e rigore nel suo ufficio. Un ordigno la notte del 3 gennaio davanti all´ingresso della procura generale, poi la sua auto sabotata dentro il garage del Palazzo di Giustizia, infine l´ultimo botto. Dentro i confini della città giudiziaria hanno allentato i bulloni di una ruota anche all´auto del sostituto procuratore generale Adriana Fimiami, e poi hanno fatto trovare un proiettile sul parabrezza della vettura del procuratore capo di Palmi Giuseppe Creazzo. Incursioni «dentro», fatte probabilmente da qualcuno che all´interno di quei luoghi ha sempre libero accesso.
Ma le intimidazioni di Reggio non si sono fermate lì. Prima l´«avviso» al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, un´auto carica di armi abbandonata ad arte sulla strada dove il 20 gennaio transitava il corteo presidenziale. Poi due buste e due proiettili per il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo che indaga sui legami fra ‘ndrangheta e politica, la pallottola ricevuta in busta dal sostituto Antonio Di Bernardo, le minacce ai sindaci della Piana e al presidente del consiglio regionale Francesco Talarico, le sventagliate di mitraglia sulle macchine dei giornalisti. Sono dieci i cronisti della provincia di Reggio Calabria entrati nel mirino dei boss dall´inizio dell´anno.
Più s´indaga e più mettono bombe. Più si scrive e più mandano anonimi e cartucce. Ma quando mai la ‘ndrangheta ha minacciato così a lungo e così a vasto raggio? E a quale scopo? A Reggio Calabria c´è una trama che non è solo di ‘ndrangheta.