Stefano Lorenzetto, il Giornale 8/8/2010, 8 agosto 2010
IL MAGO DEI TASSI A DUE CIFRE: SALVO TERMINI IMERESE PER COSTRUIRCI L’AUTO SOLARE
Il suo programma di vita lo ha davanti alle finestre dell’ufficio: Il Sole 24 Ore. È proprio lì, di fronte alla sede del quotidiano economico-finanziario, in via Monte Rosa a Milano, che Simone Cimino ha aperto la Cape, acronimo che sta per Cimino & associati private equity. Se il sole non tramontasse davvero mai, e soprattutto picchiasse ancora più forte di quanto già non stia facendo in questi giorni, il presidente della Cape sarebbe l’uomo più felice della Terra. A prima vista, l’idea che Cimino s’è messo in testa sembra davvero frutto di un colpo di sole: riuscire dove la Fiat ha fallito, e cioè rilevare lo stabilimento di Termini Imerese, dopodiché, senza licenziare nessuno dei 1.400 operai, avviarci la produzione della prima auto italiana a energia solare, e trasformare la Sicilia nella regione-pilota d’Europa per la mobilità pulita a costo zero.
Se l’impresa vi sembra disperata, prima considerate il curriculum. Col suo sistema di fondi mobiliari chiusi, dal 1999 a oggi Cimino ha investito in 65 piccole e medie industrie italiane che non riuscivano a decollare e ne ha fatto delle campionesse di redditività. Attualmente la sua Cape gestisce 43 aziende operanti in 11 settori («nemmeno Banca Intesa e Monte dei Paschi di Siena possono vantare un numero così alto di imprese partecipate», chiosa con orgoglio), che danno lavoro a 7.200 dipendenti e fatturano complessivamente oltre 1 miliardo di euro l’anno. Di una ventina di esse detiene la maggioranza assoluta. Due, quotate in Borsa, sono autentici gioiellini: una è la Screen service di Brescia, leader italiana nell’istallazione di ripetitori e antenne tv per il digitale terrestre, che ha in portafoglio clienti come Rai, Mediaset e La7, fattura 60 milioni di euro («quando ci entrai, nel 2004, erano appena 14») e garantisce un utile annuo di 11 milioni dopo le tasse; l’altra è la Arkimedica di Cavriago (Reggio Emilia), anche questa leader italiana nella costruzione, nell’arredamento e nella gestione delle case di riposo («il margine operativo non è enorme, intorno all’8-9%, ma si tratta di un investimento molto stabile: gli anziani sono in aumento e soprattutto non risentono del cambio euro-dollaro, delle quotazioni del petrolio e dell’andamento dei consumi, i tre peggiori fattori di rischio»). Non basta: con le sedi di Shanghai e di Bangalore, Cimino ha aiutato alcune aziende italiane a creare 15 realtà industriali in Cina e 3 in India. E a fine 2010 sbarcherà in Brasile.
Ma in questo momento è il progetto Sunny car di Termini Imerese quello che più sta a cuore al fondatore del fondo di private equity Cape Natixis. Per ragioni affettive, oltre che finanziarie: la Sicilia è la terra d’origine di Cimino, nato 49 anni fa a Porto Empedocle, «come Luigi Pirandello e Andrea Camilleri», figlio di un commerciante e di una casalinga. «Mio nonno aveva un negozio di tessuti, mio papà di mobili, i miei zii di abbigliamento, per cui in famiglia facevamo 300 matrimoni l’anno chiavi in mano, con gli sposi che firmavano cambiali per un quinquennio. Finito il liceo scientifico, avevo davanti a me due strade: o aprirmi un negozio o studiare». Scelse la seconda. Fu il padre a spronarlo: «Il commercio è pieno di incerti, meglio che ti laurei». L’8 settembre 1980 salì sul Treno del Sole, Agrigento-Milano, 27 ore di viaggio in seconda classe, senza cuccetta, per venire alla Bocconi, che allora costava 4,1 milioni di lire solo di tassa d’iscrizione annua. «Papà investì non meno di 50 milioni per la mia laurea. Io cercavo di non gravare sul bilancio familiare: per quattro anni feci avanti e indietro dalla Sicilia con lo stesso treno. Mica per altro: il viaggio senza cuccetta costava 45.000 lire contro le 700.000 del biglietto aereo. E per andare ogni mattina in Bocconi da Cerano, provincia di Novara, dove mi ospitava una zia, fra corriera, treno e tram ci mettevo quasi mezza giornata».
Mai investimento fu più fruttuoso: laurea con 110 e lode, dopo un anno trascorso nella Business school della New York University grazie a una borsa di studio. «La tesi, preparata ad Harvard, verteva proprio sui venture capital come strumento per lo sviluppo di nuova imprenditorialità, cioè il mio lavoro attuale. Relatore Carlo Scognamiglio, presidente emerito del Senato. Investire capitali in società con buone prospettive di sviluppo, anche se ad alto rischio, allora era un’attività sconosciuta in Italia. Se ne occupa solo Jody Vender, con la holding di famiglia Sopaf. Gli chiesi un appuntamento per la mia tesi. Quando fui al suo cospetto, mi disse: “Posso dedicarle un minuto”. Gli risposi: ok, mi dia un altro nome, così vado a parlare con quello. Ma un altro nome non esisteva».
Mi spiega in che consiste il suo lavoro?
«Nell’aiutare imprese di piccole e medie dimensioni a diventare grandi. Tenga conto che su 12.000 aziende italiane con un giro d’affari da 10 a 50 milioni di euro, che avrebbero le potenzialità per crescere, soltanto 1.500 hanno nel loro capitale gente come me. In media investo 5-6 milioni a progetto».
Come le trova?
«È il Lorenzetto della situazione a trovare me. Lei mi chiama e mi dice: “Produco bottiglie, vorrei ampliare la fabbrica, raddoppiare il fatturato, esportare in Cina, ma non desidero rivolgermi alle banche. Entra in società con me al 20, o al 40, o al 60%?”».
E lei entra.
«Diventiamo fidanzati. Sto al suo fianco per quattro o cinque anni, ascolto i suoi problemi e li risolvo. Perché, vede, il piccolo industriale non sa mai con chi consultarsi e in genere lo fa con gente, come il commercialista, che non condivide il suo rischio. Io invece ho il vantaggio d’essere un socio imprenditore che conosce il funzionamento delle aziende. In più do consigli molto oculati, visto che ci investo milioni di euro».
A lei interessano le fabbriche di bottiglie?
«M’interessa tutto ciò che offre buone prospettive di business. Ho investito in industrie di caffè d’orzo e liquirizia, cosmetici anticellulite, nastri trasportatori, altoparlanti hi-fi di alta gamma, gru idrauliche per camion, impianti per la sterilizzazione farmaceutica e ospedaliera».
I soldi chi glieli dà?
«L’80% proviene da investitori istituzionali stranieri: il primo è il gruppo francese Natixis e il secondo è la Bei, la Banca europea per gli investimenti. Poi ci sono 119 privati, che in tutto hanno sottoscritto 28 milioni di euro. La raccolta avviene attraverso due società di gestione del risparmio, sotto la vigilanza di Bankitalia. In questo momento amministriamo 550 milioni di euro, di cui 200 ancora disponibili per l’acquisto di aziende interessanti».
E per raccogliere soldi che cosa promette?
«L’attesa storica è del 30% composto l’anno. In realtà fino al 2007 chi ha investito con noi 1 euro è arrivato ad averne 3, cioè il 200% in più. Dal 2008, a causa della crisi, siamo intorno a rendimenti del 20% annuo. Ovviamente non c’è nulla di garantito: si può perdere tutto, anche il capitale. Il profeta di questi investimenti è lo statunitense Warren Buffett, il terzo uomo più ricco del pianeta».
Buchi nell’acqua ne ha mai fatti?
«Non si può non farli. Il più grande è stato nel 2000, quando siamo entrati in un’azienda di Reggio Emilia che produce vasi, il cui principale azionista ha dimostrato di avere un codice deontologico assai discutibile. Risultato: siccome non volevo fallimenti nella storia della Cape, ho comprato l’azienda io personalmente, come Salvatore Cimino, accollandomi 3 milioni di debiti bancari per non mandare a casa 90 lavoratori».
E ora che cosa le fa pensare di riuscire a Termini Imerese, dove ha fallito la Fiat?
«La Sicilia ha 5 milioni di abitanti e 18 milioni di turisti. Col Portogallo, è la regione d’Europa con il maggior numero di ore d’insolazione. Possiede un patrimonio archeologico e naturalistico senza pari. In più è un’isola, quindi disperatamente bisognosa di autonomia energetica. Nel 2007, vincendo un bando pubblico, sono diventato gestore della Cape Regione Siciliana, che ha rastrellato 52 milioni di euro in giro per l’Europa, da investire nella mia terra. La Regione ci metteva 15 milioni, altri 15 dovevano darli i privati: io da solo ne ho portati 38. Tra i soci, giusto per rendere l’idea, vi sono l’Unione europea e Unicredit. Quando ho sentito che la Fiat voleva dismettere il suo stabilimento, ho pensato che potevo cimentarmi nella costruzione di una rete di ricarica per auto a energia solare».
Ci ha pensato così, a freddo, dalla sera alla mattina?
«Momento. Lei sa che ho una società a Bangalore, la Cape India. E chi c’è a Bangalore? Il più grande produttore al mondo di auto elettriche, il mio amico Chetan Maini, 41 anni, laureato alla Stanford University di Palo Alto, in California. Il quale costruisce la Reva, una vettura alimentata dai raggi del sole che arriva a 130 chilometri orari di velocità e ha un’autonomia di 200. Dopodiché si ricarica in appena 15 minuti attaccandola alla presa di corrente. Quindi ho fatto società con Maini e ho ottenuto l’esclusiva europea per produrre e rivendere i suoi veicoli».
Quando comincia?
«Sto comprando dalla società di gestione dell’aeroporto di Trapani il terreno per il primo dei 200 siti previsti nella griglia dimostrativa, che saranno pronti entro la fine del 2011. Seguiranno gli scali di Palermo e Catania e i 52 porti turistici. Il progetto finale prevede 2.000 punti di ricarica, ubicati a 50 chilometri l’uno dall’altro, dotati di 500 metri quadrati di pannelli solari, area di ristoro, bagni. Sarà un sistema simile alle stazioni di posta che un tempo erano attrezzate per il cambio dei cavalli: il turista arriva in Sicilia, noleggia una Reva, la usa fino alla prima area di sosta e lì fa il suo bel pieno di sole in un quarto d’ora oppure ne prende una già carica e prosegue subito il viaggio. Per ogni stazione basta un addetto. Questo significa che, oltre a salvare i 1.400 posti di lavoro della Fiat, faremo 2.000 assunzioni».
Produrrà un’auto elettrica senza venderla?
«Esatto, per i primi tre anni imiterò le compagnie di autonoleggio, come Hertz e Maggiore. Prima voglio vincere la diffidenza del consumatore verso la batteria, che al momento è il tallone d’Achille di questi veicoli».
Nel senso che ti lasciano a piedi?
«Nel senso che costano un patrimonio. In India le Reva montano batterie ad acidi e quindi si vendono a 5.000 euro. Ma per un’auto solare con batterie al litio oggi ci vogliono come minimo 30.000 euro. Fra un paio d’anni si prevede che il prezzo scenderà a 18.000 euro. Sull’affidabilità, invece, non si discute. Già oggi l’amministratore delegato di Mitsubishi si fa tutti i giorni Appiano Gentile-Milano e ritorno con una Colt elettrica».
Se è così facile e conveniente, perché non ci ha pensato la Fiat a costruire l’auto solare a Termini Imerese?
«Perché il signor Obama ha regalato il 5% di Chrysler alla Fiat a condizione che vada a produrre la 500 elettrica negli Stati Uniti. D’altronde Sergio Marchionne due anni fa aveva chiesto: “Volete che raddoppi Termini Imerese o che vada a produrre in Serbia?”. Politici e sindacati l’hanno lasciato andare in Serbia».
Ma ha avuto contatti con la Fiat?
«Ben cinque incontri massacranti, l’ultimo dei quali con Diego Pistone, vicepresidente senior. La Fiat mollerà le chiavi il 31 dicembre 2011, cedendo lo stabilimento alla Regione Siciliana, a quanto pare, per la somma simbolica di 1 euro. Le togliamo le castagne dal fuoco. Servirebbero sei mesi di tempo e milioni di euro solo per smontare gli impianti e bonificare l’area dello stabilimento. La rete di stazioni a pannelli solari la faccio in ogni caso. E poi semmai importerei le Reva dall’India».
Quanto investirà in questo progetto?
«Circa 900 milioni di euro fino a tutto il 2015. L’inizio della produzione è previsto per il giugno 2012. Contiamo di sfornare 30.000 auto solari l’anno».
Ma lei crede davvero che le auto del futuro saranno mosse dai raggi del sole?
«Tutte no. Ma uno studio di McKinsey dice che nel 2020 il 20% dei veicoli sarà a energia solare. Sul suolo terrestre ne arriva una quantità enorme, circa 10.000 volte superiore a tutta l’energia usata dall’umanità».
Lei fa tutti questi sacrifici e poi magari le succede quello che è capitato a Marchionne quando ha messo sul tavolo 700 milioni di euro per riportare a Pomigliano d’Arco la produzione della Panda oggi in Polonia: la Cgil gli ha risposto picche.
«Grazie e arrivederci. Vorrà dire che i sindacati avranno perso l’occasione d’imparare un nuovo modo di fare mobilità. Ma io sono fiducioso. Il direttore dello stabilimento è un ingegnere delle mie parti, si chiama Giovanni Piritore, ha 48 anni, è originario di Palma di Montechiaro. Avrebbe già trovato lavoro in altre aziende. Quando gli ho illustrato il progetto dell’auto solare, mi ha detto: “È una gran figata”. Mi sa che potrebbe restare».
Appena riaperto lo stabilimento Fiat verranno a chiederle il pizzo.
«A me? No, a me no. A Termini Imerese ho già due attività industriali: la Ice cube, che produce ghiaccio in buste per cocktail, e la T-link, una compagnia di navigazione che collega il porto locale a quello di Genova Voltri. Mai avuto minacce. Neanche a mio padre, in 40 anni di attività commerciale, hanno mai chiesto nulla. Più hai visibilità e meno devi subire».
Lo sa che cosa pensano molti del Nord e soprattutto molti magistrati? Che la mafia venga quassù a riciclare i soldi sporchi in imprese pulite. Non si sente perseguitato da questo sospetto?
«L’anagrafica dei miei investitori è nelle mani della Banca d’Italia, ogni euro che entra qui dentro è tracciato».
Pensa che questa piaga sarà mai estirpata dalla sua Sicilia?
«Nelle aree metropolitane più disagiate la mafia ci sarà sempre, perché raccoglie dove c’è povertà e ignoranza. Infatti c’è nel Bronx come a Shanghai, a Little Italy come a Quarto Oggiaro. Non s’insinua dove c’è benessere e cultura. Ed è proprio quello, benessere e cultura, che voglio portare nella mia Sicilia».
Stefano Lorenzetto