Filippo Timi, Rolling Stone n.82 Agosto 2010, 27 agosto 2010
LA FIERA DEL CINGHIALE
Da bambini, appena si nasce, la nostra cassa toracica è spalancata, cacciamo degli strilli da brivido, e usiamo la voce per funzioni primarie, fame, cacca, sonno, attenzione... e via dicendo.
Poi cresciamo e impariamo a usare le parole, che non spiegano niente, anzi complicano l’immediato di un suono puro, ci riempiamo di vizi fonetici, perdendo ogni spontaneità.
Cominciamo a dire le bugie, a mentire, a modulare la voce per confondere, irretire, convincere, obbligare, ricattare, ammaliare, sfuggire, insomma, per i nostri sporchi comodi, allontanandoci sempre di più da quella che un tempo era stata la nostra voce, il nostro primo vagito, la nostra essenza.
E così confusi ci innamoriamo a caso, confondendo la nostra vera natura e quella del nostro amore.
Ma non potrebbe essere altrimenti, perduto quello che siamo, come possiamo scoprire quello che davvero amiamo?
La soluzione è dolorosa, e difficile.
Dobbiamo riscoprire la sirena che è in noi.
Rinunciare al falso di una natura che ci ripara dallo scandalo.
Privarci di quelle sovrastrutture che ci permettono di essere riconoscibili e omologabili agli occhi della bruttura.
Una falsa natura che ci ordina la faccia, evitando di cacciare fuori il mostro unico e meraviglioso che ogni essere umano è.
Riscoprire la creatura fantastica che abita nel nostro oceano di passioni.
Per amare in pace con se stessi, bisogna ritrovare la propria voce e per ritrovare quel suono primario, bisogna avere il coraggio di rinunciare al possibile e credere alla magia.
I divi, le star del calibro di Marilyn, Brando, James Dean, sono esempi di persone che parlavano con la propria voce, senza pudore, sconvolgendo ogni catalogazione, affascinavano milioni di fan con il loro canto da creature di favola.
Erano dei mostri di bellezza irresistibili.
Ecco a cosa servono le celebrità, a testimoniare che dentro ognuno di noi ci sta la possibilità di un oceano, di un canto che sconfina col puro, sfiorando l’incomprensione, poiché non può esserci altezza senza il pericolo di rovinarsi la reputazione.
Pochi giorni fa m’è capitato di incontrare una creatura assolutamente unica, mitica, fantastica, da leggenda, e quando me la sono trovata davanti agli occhi, a pochi metri di distanza, invece di agitarmi, come avevo immaginato che sarebbe successo, il mio cuore ha cambiato ritmo, si è calmato, forse perché avevo smesso di respirare, non lo so, ma stare di fronte a una stella, una sirena, un’assoluta visione ti apre lo sguardo, d’improvviso un sorriso nel cuore m’ha squarciato le costole, il diaframma s’è messo a ballare il tip tap, e dalla mia gola è uscita una voce che non avevo mai sentito.
Ero posseduto dalla felicità?
Probabile, ma non era solo quello.
Balbettavo come al solito, ma non avevo ansia di concludere le parole, la lingua non sbatteva come un pesciolino fuor d’acqua agonizzante, balbettavo sereno, come se il mio corpo, gli organi deputati alla fonetica si stessero calibrando per riuscire a parlare un’altra lingua che conoscevano benissimo, ma che da tanto non avevano più osato parlare.
Insomma, balbettavo senza attrito, felice, e scoprivo il mondo con le parole, non riuscivo a camuffare nessun sentimento, né a travestire nessuna intenzione, le parole non costringevano i sentimenti in quella loro solita tentazione di ridurre la grandezza in comprensione, se ne fregavano, impazzite si fidavano dello slancio con cui quel nuovo sorriso le pervadeva, uscivano fuori come bambini impazziti di miopia verso la giostra preferita del luna park.
La visione mi parlava, sorrideva, era di fronte a me, anche quando chiudevo gli occhi riuscivo a vederne la dolcezza, la sua voce squarciava il sipario delle ciglia abbassate per prendere respiro da quella bellezza, ma non ci stavano versi, il sorriso nel cuore diventava sempre più grande, l’unico modo per sopravvivere era abbandonarsi alla gioia.
Mi sentivo il principe affacciato nell’oceano davanti alla sua sirenetta.
Da tutta la vita la mamma gli aveva raccontato la favola di quella mitica creatura, e ora eccola davanti a me, vera, e più meravigliosa di qualsiasi leggenda popolare, vera, e più magica di qualsiasi suo canto ammaliatore, vera, più vera della sua meravigliosa coda di successi.
E ora eccomi qui, sono due settimane che cerco la mia voce, mia madre s’è molto preoccupata, Ma che fai? mi ha chiesto una settimana fa.
Sto cercando la mia vera voce, ho risposto cambiando tre toni in una sola frase, ed ecco che la lingua mi sbatte contro la D del mio duro dialetto perugino, e d’improvviso il cuore si squarcia.
Ho capito, devo partire dal dialetto, da quello che sono, dal fango che mi ha partorito.
Ma nessuno nella mia famiglia parla più il dialetto, allora sono andato a cercare in libreria e ho trovato un solo dizionario Italiano-Perugino, e ogni notte prima di addormentarmi studio una pagina di vocaboli.
Crostino: persona vestita con cura, attillato, elegantone.
Crucca: forte colpo in testa.
Crudo: villano.
Dirindello: giocattolo per bambini.
Drògolo: ambiente equivoco, confusionario.
Duelle: in nessun luogo.
Quindi se un giorno vi capiterà di incontrare un bel sirenetto con la pinna n. 47, gli occhi verdi e un pesante accento perugino da vero frego grifagno, non spaventatevi, capisco che l’azzardo è impressionante, quasi oltraggioso, ma che volete farci, questa è la mia vera voce.