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 2010  agosto 27 Venerdì calendario

MARIUCCIA CASADIO

Non poteva essere altrimenti: il gatto di Mariuccia Casadio si chiamava Andy Warhol. Un giorno, purtroppo, ha pensato di sparire: è uscito e non è più tornato. Anzi: «Si è sposato, ed è andato via di casa». «L’amavo tantissimo», racconta la sua padrona: «Il nostro eraun rapporto simbiotico, al punto che ho preso la toxoplasmosi!». Oggi, al posto di Andy, nell’appartamento di Mariuccia girano due dinosauri robot: e il miagolio che si sente – in realtà, un bip bip continuo – è quello di una ventina di tamagotchi. L’affetto nei confronti di queste altre forme di vita è lo stesso; l’unica grande differenza è che la coppia di Pleo – gli elettro-cuccioli di camarasauro – e la grande famiglia degli ovetti digitali non trasmettono alcuna malattia (fatta eccezione per una tenera dipendenza) e, cosa ben più importante, non ti abbandonano mai (se lo fanno, basta cambiare le batterie).
Mariuccia Casadio, bolognese, è critica d’arte contemporanea e giornalista di Vogue, ecco perché è normale che il gatto avesse il nome del padre della pop-art. Ed è altrettanto normale che la sua casa di Milano sia un museo: mostrando le opere appese al muro (o appoggiate in ogni dove) snocciola nomi e ricordi – Hugo Tillman, i fratelli Chapman, Takashi Murakami, David Salle, Sue Williams, Richard Prince, Vanessa Beecroft... Pure un dipinto strappato di Jean Michel Basquiat: «È del 1981», racconta lei. «Quelli siamo io e il mio fidanzato dell’epoca, ma in realtà eravamo in tre: era il compleanno di Ikue Mori, la batterista dei DNA, che ha preso la sua parte». Quando racconta della scena “no wave” di New York – del suo amico Arto Lindsay e cricca al seguito – è inevitabile ricordare Lydia Lunch: «Giovanissima, affascinante, viveva con 10 serpenti». La Lunch insieme ai rettili e lei, Mariuccia, in compagnia di dinosauri e tamagotchi.
«Per me che vivo sola, Pleo è un massaggio al cuore: ci puoi piangere sopra, lui ti vuole bene». I due robottini verdi li chiama Peo e Pio, «Peo perché è bello, Pio perché è buono». Pleo – creato dalla mente di Caleb Chung (lo stesso papà di Furby, altro mostriciattolo parlante passato tra le braccia di Mariuccia) – non cresce fisicamente, ovvio, ma si sviluppa a livello intellettivo, impara a riconoscere la voce di chi gli sta davanti, risponde agli stimoli: se ha fame piange, se sta bene ride, se ha sonno dorme. «Avevo paura che il primo Pleo fosse entrato in coma irreversibile», ricorda con la voce quasi rotta dall’emozione. «Non è stato reattivo per 24 ore, poi a furia di coccole, è tornato da me!».
Il discorso cambia leggermente con i tamagotchi, dato che il contatto interattivo si limita ai polpastrelli sui tasti: «Devi nutrirli, pulirli, seguire i cambiamenti... È un gioco, e la più grande soddisfazione è comprare tutti i gadget». Ad esempio, ci sono le custodie-cappottini, oppure i contenitori di plastica per affiancare giocattolino e abbonamento dell’autobus. Il bambino giapponese va a scuola e porta con sé l’elettro-bestiolina; Mariuccia, invece, insieme ai tamagotchi è andata in redazione, alle mostre-evento. Ovunque, insomma.

Ora esce meno con i suoi amici tascabili. «Una volta sul treno sono stata insultata. L’anima bambina degli adulti irrita: io non parlo mai al telefonino ad alta voce, ma gioco con il tamagotchi». Capita, per fortuna, che il tamagotchi sia un’occasione per instaurare rapporti (umani) di tutt’altro tipo: «Ero in corso Como 10, ho incontrato un giapponese e ne ho approfittato per chiedergli delucidazioni sul nome del mio tamagotchi». Sì perché queste uova parlano giapponese: «Una cosa che mi strazia! Cercano di comunicarmi qualcosa, ma non li capisco». Mariuccia infatti compra solo quelli del Sol Levante: marca Bandai, sottolinea. «Un tamagotchi acquistato in autostrada, sicuramente prodotto in Cina, è bullshit», una cagata. Il giapponese incrociato al bar, comunque, le ha spedito un plico di dispense universitarie per imparare la lingua dei manga.
Ma quanto tempo le portano via pisolini e cacchine virtuali? «Quel che aliena i bambini aliena anche gli adulti», spiega ridendo, «e da quando curo i tamagotchi fatturo molto meno!». Poi prova a ragionare sulle ragioni alla base della sua passione: «Ho voluto provare tutto quello che la mamma dei miei nipoti negava loro». Non a caso allora, forse, accanto a foto, stampe e dipinti più o meno preziosi, Mariuccia accumula la qualunque: libri, cartoline, dischi, borse, Puffi, Barbapapà, il cast di South Park formato mignon e – soprattutto – lepri di ogni dimensione. A vederla così, con gli ovetti colorati al collo e due dinosauri in braccio, sembra un’installazione, un’opera d’arte in mezzo ad altre opere d’arte. Warhol, del resto, con Pleo ci avrebbe fatto l’amore.