Filippo Taddei (economista bolognese, 33 anni, Assistant Professor al Collegio Carlo Alberto di Torino), L’espresso 2/9/2010, 2 settembre 2010
GENERAZIONE SENZA PENSIONE
on la crisi economica è calato il nostro reddito nazionale ma non la spesa pensionistica. Questa anzi è aumentata di più del 4 per cento nel 2009, costringendo la Ragioneria Generale dello Stato a riscrivere le previsioni che aveva formulato solo due anni fa. Questo fatto ha destato particolare preoccupazione perché il nostro è il paese dell’Unione europea con la maggiore spesa per pensioni di vecchiaia in rapporto al reddito: oltre il 13 per cento nel 2007. La spesa pensionistica ha raggiunto i 234 miliardi di euro: questo significa che lo scorso anno, per ogni 100 euro prodotti nel paese, più di 15 sono stati spesi a vario titolo in pensioni. Il risultato di questo aumento della spesa è stato il fatto che la Ragioneria Generale dello Stato, nell’ultimo aggiornamento delle Tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico, prevede per il 2010 un livello del rapporto spesa-Pil che, nel 2008, si aspettava si sarebbe verificato solo nel 2035 (vedi il grafico a pagina 124).
La buona notizia è che, malgrado ciò, i conti dell’Inps sono sostenibili e non avranno bisogno di manovre correttive, come è stato enfatizzato dal presidente dell’Istituto Antonio Mastrapasqua e confermato da vari autorevoli esperti. Alcuni si sono spinti ad affermare che la riforma previdenziale sia finalmente ultimata e che il nostro paese offra un modello in Europa.
Questo ottimismo è, almeno in parte, mal riposto perché sottovaluta l’importanza della realtà sottostante il dato aggregato: il nuovo sistema pensionistico - frutto di una serie di interventi che vanno dalla Riforma Dini del 1995 alla legge sulle lavoratrici del pubblico impiego del 2009 - lega strettamente le pensioni future agli stipendi dell’intera carriera del lavoratore. Nel vecchio sistema retributivo, che vale ancora solo per chi va in pensione in questi anni, sono gli ultimi stipendi della vita lavorativa a determinare l’ammontare della pensione. Così facendo, il sistema pensionistico opera implicitamente una forte redistribuzione di risorse dalle giovani alle vecchie generazioni.
Questa redistribuzione tra le generazioni si aggiunge alle ragioni di riforma del nostro mercato del lavoro, del nostro stato sociale e di completamento del nostro sistema pensionistico. Non sembra possibile chiedere solo ad alcune generazioni di portare il peso del cambiamento strutturale dell’economia italiana, di accettare la flessibilità del mercato del lavoro, mentre si offrono loro pensioni insufficienti.
Come può essere successo che, malgrado l’innalzamento della spesa con 25 anni di anticipo, non ci sia bisogno di una correzione legislativa? La sostenibilità futura dei conti previdenziali si regge su un aumento di fatto dell’età minima di pensionamento e su una marcata riduzione del livello delle pensioni che i lavoratori di oggi verranno a percepire dal 2030 in avanti: almeno il 25 per cento in meno rispetto a chi va in pensione oggi, a parità di storia contributiva del lavoratore secondo la Ragioneria Generale dello Stato.
Un lavoratore che è andato in pensione nel 2008 a 63 anni, dopo una carriera di 35 anni da dipendente privato, ha ricevuto in pensione poco meno del 70 per cento dell’ultimo stipendio. Andando in pensione nel 2040 si dovrà accontentare solo del 50 per cento. Naturalmente queste sono valutazioni in buona parte ottimistiche: tra le giovani generazioni è difficile oggi trovare qualcuno che, assunto con un contratto a tempo indeterminato a 28 anni, potrà vantare una carriera che permetta di arrivare a 63 anni con ben 35 anni di contributi. Se poi si volesse fare il confronto sulle pensioni dei lavoratori autonomi, la differenza sarebbe ancora più drammatica: si passerebbe da una pensione eguale al 68 per cento dell’ultimo stipendio nel 2008 ad una che ne supera di poco il 30 per cento nel 2040.
Alla radice di questa sproporzione nelle pensioni sta l’essenza della dovuta trasformazione del sistema pensionistico dal retributivo al contributivo. Per chi va in pensione in questi anni, le pensioni dipendono praticamente solo dagli ultimi stipendi ricevuti, mentre per chi va in pensione tra 15-20 anni le pensioni dipenderanno sempre di più da tutti i redditi percepiti durante l’intera carriera lavorativa, inclusi i periodi con contratti atipici e precari, e quelli di crisi economica come l’attuale.
Ma la differenza forse più importante, raramente enfatizzata, tra il vecchio sistema retributivo e il nuovo sistema contributivo è un’altra. Col sistema di calcolo contributivo, per le pensioni di domani contano molto i redditi percepiti all’inizio della carriera lavorativa. Su questi si pagano contributi sociali che vengono capitalizzati per decenni e che finiscono per influenzare non poco la pensione. Col retributivo, viceversa, il loro effetto sul livello finale della pensione era fondamentalmente nullo.
Questo semplice cambiamento nelle regole pensionistiche, dal retributivo al contributivo, si è reso necessario per assicurare la sostenibilità della spesa previdenziale italiana ed è stato unanimemente salutato come una scelta fondamentale. Una scelta che finisce però per mettere in crisi il patto sociale, implicito ma pervasivo, alla base del nostro mercato del lavoro. Come ha osservato anche il Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi nella lezione di apertura della Società Italiana Economisti del 2007 citando dati Eurostat, l’Italia è l’unico dei grandi paesi europei in cui le remunerazioni nel settore privato crescono sempre all’aumentare dell’età dei lavoratori (vedi grafico a pagina 123). A sostegno di questo peculiare equilibrio del mercato del lavoro italiano c’era la convinzione, da parte dei lavoratori, che se avessero accettato remunerazioni basse all’inizio della propria carriera, sarebbero poi stati ricompensati con remunerazioni sempre crescenti all’avanzare dell’anzianità, e con pensioni proporzionate solo all’ultima fase della propria vita lavorativa.
Esisteva quindi un patto sociale implicito in cui lavoratori giovani e produttivi accettavano di venire sottopagati in cambio della promessa di aumenti di reddito posticipati nel tempo, e pensioni a questi proporzionati. Questo patto ha finito per promuovere un equilibrio in cui l’anzianità ha acquisito una centralità piuttosto unica. Le remunerazioni di questo paese premiano l’anzianità innanzi tutto, anche a scapito della competenza individuale. Questa caratteristica strutturale della nostra economia, presente in passato come oggi, ha semplicemente smesso di essere accettabile nella situazione attuale: a causa della prolungata stagnazione economica del paese e della riduzione - dovuta al calcolo contributivo - delle pensioni di chi oggi comincia a lavorare. Il sistema previdenziale non è un pezzo isolato dell’economia e, se si decide di cambiarlo, non si può evitare di toccare anche il resto.
Una delle abitudini più comuni è di guardare cosa succede a chi va in pensione oggi per sapere cosa attendersi quando verrà il proprio turno di ritirarsi dal lavoro. Alla luce della lunga transizione del nostro sistema pensionistico, oggi questa abitudine non potrebbe essere più sbagliata.
La politica economica deve affrontare il fatto che la nostra economia è cambiata. Concluse le riforme che hanno reso la spesa previdenziale sostenibile, rimane ancora da compensare quei lavoratori, in prevalenza donne e giovani, a cui attende un futuro particolarmente difficile anche a causa di una pensione pubblica insufficiente. Questi sono gli stessi su cui grava in maniera sproporzionata la precarietà lavorativa. Ma se mettiamo anche il sistema previdenziale al servizio dell’obiettivo generale di favorire la trasformazione produttiva di questo paese attraverso un mercato del lavoro flessibile, allora bisogna cominciare da due interventi, diversi ma strettamente collegati nella logica del sistema contributivo.
Il primo è assicurare la continuità contributiva alla maggior parte dei lavoratori. Per questo è necessario ridurre l’incertezza individuale nel mercato del lavoro attraverso l’introduzione di un assegno universale di disoccupazione e di un percorso definito di stabilizzazione occupazionale, come il contratto unico a tutele crescenti proposto dagli economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi. Il secondo intervento è costruire un complemento alle carenze del sistema previdenziale pubblico attraverso la massiccia incentivazione fiscale del risparmio privato volto all’età del pensionamento.
L’alternativa è ritrovarsi tra qualche tempo con una fetta fondamentale della nostra popolazione desiderosa di batter cassa per aumentare le proprie pensioni. Ma sarà molto più costoso, oltre che iniquo, farlo quel giorno invece che oggi.