Sergio Romano, Panorama n.36 2/9/2010, 2 settembre 2010
I ROM SONO UN PROBLEMA CHE CI SIAMO TIRATI DENTRO L’UE ASSIEME AI PAESI DELL’EST
Prima di parlare dell’espulsione di un gruppo di rom dalla Francia e delle reazioni provocate dalla decisione del presidente Nicolas Sarkozy, soprattutto in ambienti cattolici, conviene fare quattro conti. I rom sono presenti in tutti i paesi europei, ma soprattutto nell’Europa centroorientale. I censimenti non sono sempre affidabili, ma le cifre, approssimativamente, sono queste: fra 2 milioni e 2 milioni e mezzo in Romania (6,49 percento della popolazione), 750 mila in Bulgaria (8), 800 mila in Ungheria (10,4), 600 mila in Slovacchia (5,4), 350 mila nella Repubblica Ceca (2,3 per cento). Quando questi paesi entrarono nell’Unione Europea, sapevamo che avrebbero portato con sé circa 5 milioni di uomini e donne che andavano sino a poco tempo fa sotto il nome di zingari o gitani. In una serie di reportage per il Corriere della sera dai paesi candidati all’adesione, nel 2004, detti alcune cifre e cercai di spiegare quale problema rappresentassero per i paesi in cui vivevano.
Conoscevamo anche la loro storia. Sapevamo che nelle economie preindustriali, soprattutto in Europa orientale, erano stati, con altri vagabondi, protagonisti di una «economia della strada». Andavano da un paese all’altro per ferrare cavalli, riparare pentole, suonare il violino nelle taverne, mangiare fuoco e fare giochi acrobatici nelle piazze, dire la buona ventura nelle feste dei villaggi e rubacchiare qua e là quando l’occasione fa l’uomo ladro. Suscitavano sentimenti contrastanti. Qualcuno li temeva, altri li trovavano simpatici, pittoreschi e musicalmente molto dotati. Vi fu persinò un’epoca in cui non vi era operetta viennese in cui non figurasse uno zingaro.
La motorizzazione e l’industrializzazione hanno progressivamente reso i loro mestieri anacronistici e superflui. I cavalli sono scomparsi dalle strade, le pentole sono in acciaio inossidabile e la gente, anziché chiedere agli zingari musica e buona ventura, accende la televisione e legge l’oroscopo. Per risolvere il «problema rom», il nazismo li ha uccisi e il comunismo li ha costretti a lavorare, manu militari, nei grossi kombinat dell’economia pianificata. Negli anni della guerra fredda avevano nostalgia della strada, ma potevano contare sul salario alla fine del mese. Dopo il crollo del comunismo e il ritorno all’economia di mercato non hanno né la strada né il salario. Si potrebbe sostenere che nella storia della guerra fredda e della sua conclusione i rom rappresentino, come i civili afghani e iracheni in questi ultimi anni, un «danno collaterale». È probabile che la loro condizione li abbia resi ancora più malandrini di quanto fossero in passato. Ed è evidente che nessun governo può voltare le spalle al sentimento d’insicurezza che essi suscitano nelle popolazioni civili.
Ma un problema umano di queste dimensioni non si risolve spostando gli indesiderabili da un paese all’altro. La decisione di Sarkozy risponde soprattutto alle esigenze politiche di un presidente che sta perdendo la fiducia del paese, e non dà alcun contributo alla soluzione del problema. I rimbrotti della Commissione di Bruxelles e gli appelli umanitari delle gerarchie ecclesiastiche sono manifestazioni di nobili sentimenti, ma praticamente irrilevanti. Occorre aiutare i paesi da cui provengono a gestire e finanziare programmi che consentano ai rom di risiedere stabilmente su un territorio, imparare un mestiere e soprattutto mandare i figli a scuola. Non sarà facile e richiederà tempo. Ma ogni altra soluzione è soltanto un indecoroso palliativo.