Carlo Pannella, Libero 27/8/2010, 27 agosto 2010
CINICO TV: LA GUERRA AFGANA DIVENTA UN REALITY
L’ultimo grido nel pianeta dei reality televisivo ha il fragore di una bomba, anzi, di una mina, di quelle terribili, antiuomo, che in Afghanistan, Iraq, Sudan e in tanti altri paesi in guerra dilaniano vite di soldati e civili, bambini inclusi. La serie si intitola “Bomb patrol: Afghanistan”, (che ben suona più efficace dell’italico “Artificieri: Afghanistan”) e si basa sulla pessima idea di seguire passo passo, sin dall’addestramento, le vicissitudini di una squadra di artificieri che disinnesca mine vere sul terreno vero dell’Afghanistan. Disgraziatamente, il Dipartimento della Difesa Usa e il Pentagono hanno dato il via libera a questa cinica iniziativa, che ha anche il torto evidente e rivendicato senza pudore di scopiazzare pigramente il bel film “Hurt Locker”, di Kathryn Bigelow che l’anno scorso vinse quattro Oscar (il primo ad una regista donna), che descriveva appunto le vicissitudini eroiche di una squadra di sminatori in Iraq.
I PATRIOTI
Naturalmente Neal Tiles, presidente della casa produttrice la G4 sostiene che il senso del reality è quello di far partecipare il pubblico del dramma e delle tensioni di questa meritoria attività bellica. Altrettanto naturalmente, le autorità militari Usa appoggiano entusiaste questi nobili scopi patriottici, convinte che miglioreranno l’immagine delle Forze Armate Usa. L’attività degli artificieri, infatti, pur essendo la più pericolosa di tutte quelle belliche, ha un enorme vantaggio psicologico sulle altre, che la rende particolarmente adatta a essere ammirata dal grande pubblico: è solo e unicamente difensiva. Non porta morte, ma evita che la morte sia seminata, alla cieca.
Di più: è un wargame in cui il nemico che ha messo la mina è per definizione, senza che lo si debba spiegare, un essere infame e mostruoso che colpisce a tradimento (facendo addirittura esplodere la terra), che fugge dopo aver posto la bomba e che infine prevede addirittura con favore che la vittima non sia un militare nemico, ma anche un civile, donna, uomo o bimbo che sia. Ecco perché è stato possibile alla G4 di elaborare una proposta che apparentemente è solo intrisa di senso patriottico.
Ma Neal Tiles e la sua G4 non ci ingannano (o meglio: ingannano solo i generali creduloni del Pentagono): è evidente che il senso del reality è uno e uno solo, attendere il momento in cui si vedrà in diretta un artificiere saltare su una mina ed essere dilaniato dallo scoppio. Urla e sangue vero inclusi.
La guerra è una cosa seria, sporca, brutta, odiosa quanto purtroppo ineliminabile dalle umane vicende. Per narrarla, per farla partecipare al grande pubblico, è quindi necessario, indispensabile, il filtro della narrazione, della letteratura, della sceneggiatura, dell’artista insomma. Se no, è pura macelleria, anche noiosa, perché i suoi tempi sono fatti di lunghe, lunghissime attese di un nemico celato, che durano ore, giorni, settimane, mesi (e quale reality sopporta questa noia?), e poi deflagrazioni improvvise delle armi, della morte sparsa a piene mani.
MORTE IN DIRETTA
È dunque lecito il sospetto, che diventa certezza, che la G4 abbia solo fatto tesoro di una rilevazione di un istituto di sondaggi tedesco che scoprì, negli anni ’80, prima che fossero imposte più severe norme di sicurezza, che la motivazione principale degli spettatori della Formula 1 era l’attesa dell’incidente, possibilmente mortale.
Il meccanismo di questo reality altro non è che la brutta copia di quello che ne reggeva un altro, duemila anni fa: lo spettacolo dei gladiatori nel Colosseo. Solo che lì, almeno, il pubblico aveva la possibilità di decidere, col pollice alto, o col pollice verso, se il combattente perdente meritava la vita o la morte.
Nel nuovo Colosseo mediatico inventato dalla G4, la platea del telecomando non avrà neanche questo potere. Starà lì, a godere della tensione nervosa degli artificieri, dei loro gesti lenti e misurati, dei comandi secchi e precisi e in cuor suo alla terza mina disinnescata non potrà che sperare che accada qualcosa. Al minimo: che la mina esploda.