Massimo A. Alberizzi, Corriere della Sera 27/08/2010, 27 agosto 2010
QUELL’OASI PER I BAMBINI NELL’INFERNO DI MOGADISCIO
Mogadiscio è nel caos totale. Le truppe del Governo Federale di Transizione controllano un paio di quartieri. Gli insorti islamici dilagano. Gli scontri per tentare di strappare qualche metro quadrato all’avversario sono quotidiani. Lunedì i fondamentalisti di Al Qaeda hanno attaccato l’albergo Muna, dove di solito abitano i deputati del parlamento somalo. Non c’è un palazzo, una villa, un muro che non mostri segni di guerra.
L’asfalto è un cratere unico. Per strada circolano solo uomini armati. Difendere se stessi, i propri familiari, i propri beni (e con questo si deve intendere roba di poco valore, le scarpe, un quaderno, una bottiglia) è l’unica ragione di vita per i somali che ancora vivono a Mogadiscio. La città, in questi anni, si è piuttosto svuotata. I profughi sono scappati a ondate; l’ultima in questi giorni. Le organizzazioni di aiuto hanno grosse difficoltà a portare il cibo agli affamati. Accanto alla guerra armata, si combatte quella del pane. Gli islamici hanno ammazzato cooperanti che si occupavano della distribuzione del cibo. Poi c’è stato un contrordine: «Lasciate che consegnino i viveri». Ma in questi giorni c’è stata un’altra inversione: « Via , se no vi ammazziamo».
In queste condizioni disperate c’è un luogo che non è mai stato saccheggiato o assalito dai miliziani, di qualunque tendenza: l’ospedale di Sos Children Village dove sono state curate decine di feriti di guerra, nonostante fosse dotato solo di maternità e pediatria. Lì sono nati migliaia di bambini e (nel campus) vivono 200 orfani (mangiano, dormono e vanno a scuola).
L’organizzazione non governativa è austriaca, di Innsbruck, ma la realizzazione è tutta italiana a cominciare dal suo capo, Willy Huber, sudtirolese di Bressanone, 54 anni, nominato commendatore qualche anno fa proprio perché, tra tutte le vicissitudini, è riuscito a tenere aperta la struttura.
Chi vi entra rimane sorpreso . Scompaiono le case bombardate e le devastazioni della guerra. Ecco giardini lussureggianti, aiuole ben curate, casette intatte e confortevoli. «Qualche problema l’abbiamo avuto anche noi — racconta Huber —. Una decina di bombe di mortaio, in vent’anni di guerra, sono accidentalmente cadute nei nostri giardini facendo qualche ferito. Poi una delle quattro suore che erano qui fino a quattro anni fa, suor Marzia, è stata rapita per un paio di giorni, e un’altra, suor Leonella, è stata uccisa a sangue freddo nel settembre 2006. Ma sono episodi non pianificati contro di noi. Piuttosto frutto di azioni di pazzi esaltati. Suor Marzia è stata liberata dalla popolazione locale. In centinaia si sono presentati davanti alla casa dove era tenuta prigioniera (a Mogadiscio chi vuole sa tutto) e se la sono fatta consegnare dai rapitori che hanno rischiato il linciaggio».
«Lo stesso è avvenuto per uno degli assassini di suor Leonella — ricorda il commendatore, che ora vive a Nairobi ma ogni due tre mesi torna a controllare —. Uno è stato consegnato alla polizia poche ore dopo l’attacco. Il giorno dopo il suo assassinio, la popolazione ha organizzato un’imponente dimostrazione per chiederci di non chiudere l’ospedale».
Nell’ospedale di Sos sono nati e nascono tutti i bambini di Mogadiscio, e non c’è donna della capitale che non abbia curato il suo piccolo alla pediatria. La sua sopravvivenza in un ambiente così ostile ha dell’incredibile. Il centro è situato nel cuore del quartiere più fondamentalista e più pericoloso della città, poco lontano dalla moschea di Al Idayha, covo dei fondamentalisti islamici legati ad Al Qaeda. Una strada separa il muro posteriore di cinta dal cimitero italiano devastato il 15 gennaio 2005 dagli Shebab, i talebani somali che combattono nel nome di Bin Laden. Assalto guidato da Adan Hashi Aeru, che al posto del camposanto fece costruire a tempo di record una moschea, un centro islamico e una scuola coranica. Aeru — autista del Corriere all’inizio degli anni ’90 — fu disintegrato da un missile Usa che colpì la sua casa il 1° maggio 2008, ma il covo di reclutamento islamico accanto all’ospedale modello esiste ancora.
Massimo A. Alberizzi