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 2010  agosto 27 Venerdì calendario

IL BOCIA, I COLORI E LE BOTTE «LA MIA DROGA E’ PICCHIARE GLI ALTRI ULTRA’» —

Il suo cuore non batte, calcia. Lui non è bergamasco, è atalantino. Non ama la violenza, solo lo scontro. E, va da sé, picchia gli avversari per rispetto. Lo dice sempre ai suoi ragazzi: «Fate i bravi, mai infierire contro chi è già a terra». Vuoi mettere? Il gusto di menare un genoano, un viola, un romanista mentre prova a difendersi in piedi?
Se fosse un reato sarebbe istigazione a delinquere. E invece no. È il Bocia-pensiero, la filosofia del capo ultrà dell’Atalanta. Si chiama Claudio Galimberti, di professione giardiniere, 38 anni spesi in gran parte per i suoi nerazzurri. La prima volta che si presentò in uno stadio aveva i calzoni corti, era un «bocia», come si dice da queste parti. Un ragazzetto. E da allora nessuno l’ha più chiamato Claudio.
C’era anche lui, mercoledì sera, ad Alzano Lombardo. I suoi amici della curva Nord dicono che non era nel gruppo dei violenti che hanno guastato la festa alla Lega, che nelle sue tasche non c’erano bombe carta, che stavolta ha provato a essere colomba e non falco. Ma ieri il Bocia, di solito generoso davanti a taccuini e microfoni, non ha voluto saperne di spiegare al mondo com’è andata davvero. Telefonino spento e soltanto una frase trapelata per interposto compagno di squadra: «La situazione mi è sfuggita di mano». Parecchio, a giudicare da come si è conclusa la serata alla Berghem Fest. E quel ragazzetto diventato leggenda per le tifoserie ultrà di tutt’Italia sembra quasi non aver messo in conto che nella rabbia dei teppisti con le bombe in tasca ci sono anche i suoi sermoni.
Quando parla lui, nel «covo» bergamasco del quartiere Campagnola, la folla ultrà smette di respirare. Sono almeno cinquecento-seicento, ogni martedì. È lo zoccolo duro della tifoseria atalantina. Hanno a disposizione il piano intero di un edificio dove preparano cori, striscioni, strategie, trasferte. E lui, Bocia, detta la linea.
«L’apice dello scontro è la cosa più bella che si possa avere perché è dettata dal cuore, perché nasce dalla passione» teorizza da sempre. Cliccatissima una sua intervista su YouTube: «Roma, Torino, Firenze sono tifoserie tutte grandi, noi vogliamo sempre avere problemi con questi, e se non ce li abbiamo li cerchiamo noi i problemi. Ci stanno tutti sul c... e poi c’è la voglia — ed è la mia droga — di picchiarmi con un ultrà di qualsiasi altra squadra per fargli capire che qua non c’è la possibilità per te di fare il galletto».
Temuto e stimato dagli avversari, venerato dai suoi, Bocia ha provato mille volte, quasi sempre inutilmente, a spiegare la lealtà che lui trova nelle botte fra tifoserie. La teoria prevede scontri a mani nude. Il concetto è: ce la giochiamo ad armi pari e vediamo chi cade per primo. «In uno scontro così c’è rispetto ma è inutile spiegarlo agli altri, lo puoi capire soltanto se sei un ultrà».
Se sei molto ultrà, poi, forse diventa comprensibile anche l’assalto alla polizia e l’episodio della vetrata (fra la curva e il campo) sfondata a colpi di tombino nella partita Atalanta-Milan l’11 novembre 2007. Quella volta erano le proteste per la morte di Gabriele Sandri. «Il calcio doveva fermarsi e noi l’abbiamo fermato, era un dovere morale», aveva detto Bocia spiegando però che l’uso del tombino non era una concessione in deroga, «forse quello è stato un errore». Nessuna spiegazione, invece, per gli incidenti che hanno preceduto la partita Atalanta-Catania del 23 settembre 2009, quelli che gli sono costati il massimo del daspo: cinque anni lontano dagli stadi.
Da allora Bocia segue le partite dalla Rocca, il punto più alto di Bergamo, ritrovo dei tanti, tantissimi diffidati atalantini. Guardano il campo da lontano (solo metà), intravedono gli striscioni, bevono un sorso di qualcosa di alcolico che allo stadio sarebbe vietata, tendono l’orecchio per ascoltare i cori e sognano di essere sugli spalti.
La vita è fatta di compromessi e, per dirla con le parole del capo, «se sei daspato devi accontentarti di questo», devi guardare i tuoi nemici («sono tutti nemici») dalla cima della città, semmai organizzare l’offensiva e poi lasciarla agli altri. Anche a questo servono le istruzioni del martedì sera nel covo di Campagnola. Fra fotografie di giocatori mitici e striscioni da decorare, fra cori da inventare e avversari da abbattere a pugni, la famigerata folla ultrà a volte lascia il covo con in mente un tifo speciale: per la rinascita d ell’Aquila rugby , peresempio (cosa riuscita proprio grazie agli atalantini), o per la raccolta di fondi per i bambini africani (più di una volta). La «droga» dello scontro vuole le sue pause.
Giusi Fasano
Ha collaborato Cesare Zapperi