Michel Martone, Il Sole 24 Ore 27/8/2010, 27 agosto 2010
REGOLE NUOVE SULLA DEMOCRAZIA SINDACALE
Nonostante le tensioni e le polemiche suscitate dall’accordo di Pomigliano, tutti, anche la Cgil, sono ormai d’accordo sul fatto che nel nostro paese c’è un disperato bisogno di regole sulla democrazia sindacale.
Perché non si può affrontare la competizione globale con un sistema di relazioni industriali che, per funzionare, ha bisogno dell’unanimità dei sindacati confederali perché consente alle minoranze di vanificare, con scioperi e contenziosi seriali, le scelte dell’azienda accettate dalla maggioranza dei lavoratori.
Per questo, già con la sottoscrizione del Protocollo del 23 gennaio 2009, tutte le parti sociali, con l’eccezione della sola Cgil, si erano assunte l’importante compito di individuare un quadro di regole chiare sulla rappresentanza per affermare nelle aziende, come nelle relazioni industriali, il principio democratico. Ovvero l’elementare regola secondo la quale le decisioni prese dalla maggioranza vincolano anche la minoranza.
Purtroppo, però, di fronte a questo importante compito, i sindacati si sono ben presto divisi sulla base di due diverse visioni della democrazia. La prima di queste concezioni è quella che può essere definita partecipativa e trova il consenso della Cisl e della Uil. La seconda è di marca più prettamente assembleare ed è portata avanti dalla Fiom e forse dalla Cgil.
La prima proposta, che peraltro incontra anche il favore di Governo e parti sociali, si ispira al modello della democrazia rappresentativa. In base a questa concezione i lavoratori, attraverso l’elezione, attribuiscono agli eletti il mandato a rappresentarli; ricevuto il mandato gli eletti trattano, eventualmente proclamando scioperi, ma poi, quando i sindacati che rappresentano la maggioranza dei lavoratori sottoscrivono il contratto collettivo aziendale, tutti i lavoratori dell’azienda sono obbligati a rispettarlo.
Si tratta di un sistema coerente con la Costituzione che ha peraltro il pregio, soprattutto in un momento di sacrifici economici come quello in cui ci troviamo, di consentire a chi governa le aziende e a chi rappresenta i lavoratori di prendere scelte difficili, come ad esempio quella di aumentare la flessibilità oraria, senza dover necessariamente sottoporre ogni volta quella scelta ad un referendum. A questo modello se ne contrappone un altro, a dire il vero portato avanti dalla sola Fiom con un disegno di legge ad iniziativa popolare, che invece predilige la democrazia cd. assembleare.
In base a questo modello, ci dovrebbero essere due fasi di confronto con i lavoratori. Una prima, di carattere elettorale, quando votano le loro rappresentanze, e una seconda, referendaria, nella quale i lavoratori sono chiamati a ratificare ex post i contratti collettivi sottoscritti dai sindacati eletti.
Un bagno elettorale che, per realizzare la democrazia assembleare nelle aziende, rischia di paralizzarle e di comprometterne la capacità di competere sui mercati internazionali. Perché rimette ogni scelta a un doppio confronto elettorale che, da un lato, comporta un grave dispendio di tempo, dall’altro, deresponsabilizza i sindacati e, in ogni caso, compromette le possibilità di programmare l’attività aziendale, come è indispensabile per ogni impresa che voglia essere competitiva.
Ora mi chiedo. Se siamo chiamati a competere con modelli di impresa di marca autoritaria come quelli che si sono affermati nei paesi in via di sviluppo dove, come in Cina, tutte le scelte dell’imprenditore sono assolutamente libere perché il sindacato a malapena esiste, come possiamo pensare di poterli efficacemente contrastare adottando un sistema di democrazia sindacale che espone scelte vitali per le aziende, prima ad estenuanti trattative con i sindacati e poi all’incerto esito di referendum che consentono ogni volta ai lavoratori di sconfessare i contratti sottoscritti dai sindacati?
Forse anche la Fiom dovrebbe prendere atto che, di fronte alla competizione globale, il vero rischio per la democrazia, anche quella industriale, è che l’assemblearismo degeneri nell’anarchia o, peggio, nella paralisi.
Perché in definitiva, come afferma la nostra stessa Costituzione, la democrazia serve proprio a questo.
A far sì che la voce della maggioranza sia in grado di tradursi in decisioni concrete che, seppure possono richiedere alcuni sacrifici, sono in grado di garantire un futuro a tutti.