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 2010  luglio 26 Lunedì calendario

IO, L’EINAUDI E L’ONNIPRESENTE SILVIO: NIENTE CROCIATE PLEASE


Ho pubblicato il mio primo libro con Einaudi nell’ ottobre del
2008, cioè quando il governo tuttora in carica era nel pieno della sua arroganza. Non potrei mai affermare di aver fatto quindi un gesto inconsapevole, e so da sedici anni che il padrone di Einaudi e Mondadori è quasi ininterrottamente il presidente del consiglio del mio paese.
Non solo. Ho lasciato la Feltrinelli, attraversando felicemente Laterza per approdare alla casa editrice Einaudi, un percorso che potrebbe essere interpretato, con i metodi di questi giorni, come quello di un pazzo. Non solo. Sono tra gli sceneggiatori
del Caimano (molto in voga nel dibattito di questi giorni), e quest’anno de La prima cosa bella di Virzì, che ha Medusa tra i produttori. Sono esempi, e sono anche confessioni pubbliche in linea con un certo clima da Germania Est che si respira però
allegramente, come può succedere in Italia. Avessi dovuto rinunciare a scrivere uno dei due film per qualche motivo etico o di coerenza, non me lo sarei perdonato.
E infine, sono pienamente consapevole di tutto quello che succede, compresa la legge fatta apposta per chiudere la questione fiscale della Mondadori. Mi arrabbio, ne soffro, ne discuto.
Del resto, vivo in un’epoca in cui è successo che la maggior parte delle cose che mi interessano (libri, giornali, cinema, televisione, perfino la politica) sono di proprietà di un uomo. Addirittura, molte delle persone con cui amo lavorare, sono suoi dipendenti o lavorano con lui, molti dei luoghi culturali e dello spettacolo nei quali mi ritrovo, in cui mi sento a mio agio, sono di sua proprietà. Ciò non toglie che quando ho scelto di lavorare per società di proprietà di Berlusconi non lo abbia fatto consapevolmente. Ciò non toglie che preferirei che non fossero di sua proprietà, o che almeno lui non facesse leggi per agevolarle.
I motivi per cui pubblico con Einaudi sono di vario tipo, e alcuni possono prenderli per giustificazioni. Potrei esibire il lungo catalogo e il sogno che avevo da ragazzino di pubblicare per questa casa editrice; potrei fare una gigantesca chiamata in correità e snocciolare una quantità di nomi di insospettabili -
potrei brandire a mia difesa Rossana Rossanda, solo per citare un esempio, chiedendo se qualcuno ha voglia di dubitare di lei; potrei fare altre chiamate in correità, di qualsiasi tipo. Potrei cominciare a elencare i talloni di achille di alcune case editrici presunte indipendenti o di scrittori che dormono sonni tranquilli ignari del fatto che i loro soldi sono passati per Berlusconi, ma con un paio di gradi di separazione in più - potrei cioè scrivere uno di quegli articoli velenosissimi, che vanno molto di moda in questi anni. Potrei dire anche io quello che tutti gli altri dicono, e che è profondamente vero: che coloro che fanno la casa editrice Einaudi sono dei grandi professionisti, come lo sono in Mondadori e in Medusa. Potrei dire che molti degli scrittori italiani contemporanei che amo pubblicano lì e potrei dire perfino che tengo famiglia e non me lo posso permettere di andare via.
In verità ho una risposta più elementare: pubblico con Einaudi (o scrivo film per Medusa) perché non credo di dovermi lavare la coscienza andandomene da lì, perché penso di avere la coscienza sufficientemente pulita e non ritengo di sporcarmela lavorando con società con le quali lavoro benissimo e che mi
permettono di fare il mio lavoro al massimo delle possibilità e senza limiti.
Rispetto chi sceglie di occuparsene, lo rispetto per davvero. Come rispetto pienamente chi è riuscito a crearsi un mondo in cui davvero i tentacoli di Berlusconi non arrivano in nessun angolo. Ma io non voglio occuparmene. Non provo e non ho mai provato una vera crisi di coscienza, e non posso fare gesti per compiacere altri. Tutte le mie energie voglio spenderle per fare bene quello che devo fare (un romanzo, una sceneggiatura, un articolo), e non è detto che bastino; non voglio spendere nemmeno un secondo della mia esistenza a pensare se in qualche modo sto entrando in contatto diretto o indiretto con lui. Riterrei in quel caso la mia vita davvero condizionata da quest’uomo. È questa la mia natura, e non posso fare altro che assecondarla. Altrimenti, sarei asservito a un’onda, che sia irrazionale o civile, che ignorerebbe gran parte del concetto di libertà individuale.
Alla fine, però, la questione è la seguente, piuttosto semplice: come scrittore voglio essere giudicato per quello che scrivo e non per l’editore con cui pubblico. Questa è l’unica cosa fondamentale in cui credere per continuare ad avere una reale percezione di libertà. Non credo sia in alcun modo giusto giudicare uno scrittore e il lavoro che fa a seconda delle scelte etiche che ha fatto, delle scelte di campo che è pronto o non è pronto a fare. Ma soltanto dalle opere che scrive. Io spero di riuscire a scrivere uno, due libri di qualche dignità, forse di qualche rilievo; mentre non vorrei essere additato o addirittura ricordato come colui che ha avuto il coraggio di andarsene da una casa editrice.
Voglio essere uno scrittore libero, che è l’unico modo di essere scrittore; e cioè scegliere (e prima ancora essere scelto, ovviamente) il marchio migliore per le mie caratteristiche in assoluta libertà e con la possibilità di risolvere o convivere con le mie contraddizioni, discutendone con chiunque, ma senza dover dare conto delle mie conclusioni a nessuno. Voglio risolvere le questioni morali in solitudine e senza essere messo alla gogna da nessuno. Voglio essere giudicato per quello che scrivo che è il risultato di una passione, abnegazione, voglia di esprimermi che hanno catturato la mia esistenza integralmente.
Non voglio far parte di liste nere di sconfessati o, peggio, di liste bianche di eroi.
Voglio che qualcuno si accorga di un mio libro, lo compri, lo paghi e lo giudichi con la stessa libertà con la quale l’ho scritto. Voglio vivere con partecipazione e interesse, dolore e rabbia, in un paese problematico soprattutto per la gigantesca presenza di un uomo ricco e al potere che detiene quasi tutto; però senza essere giudicato, in quanto scrittore, se vengo pagato da questo o da quell’altro, se sto con i buoni o con i cattivi. Coltivo i miei dubbi, partecipo come intellettuale alla vita culturale e politica di questo paese esprimendo le mie idee che più che spesso sono in netta contraddizione con le idee di Berlusconi.
Ho sempre espresso i pensieri che volevo esprimere e raccontato ciò che volevo raccontare. Potrei dire: quando è successo qualcosa di diverso, me ne sono andato; ma non posso dirlo, perché non mi è mai successo (finora). Se succedesse, me ne andrei da Einaudi come da l’Unità, come da qualsiasi altro posto. Quindi per me le case editrici, le produzioni cinematografiche, i giornali, in questo senso, sono tutti uguali.
Ovviamente, ho scelto di pubblicare con Einaudi per tutt’altre ragioni da quelle di cui si discute, e cioè meramente professionali. Ma devo dire che in questo momento, in questi giorni, sono contento di essere un autore Einaudi. Cioè, per dirla tutta e nel pieno rispetto di coloro che hanno scelto di stare dalla parte giusta o anche di coloro che ci sono finiti per caso, io sono contento di non stare dalla parte giusta ma da quella sbagliata. È più interessante, problematico, mette in gioco un sacco di questioni che coloro che non stanno qui non possono nemmeno capire. E poi fa sentire corresponsabili di ciò che succede, fa sentire contraddizioni continue - fa sentire come mi sento per davvero vivendo in questo paese. Mi raccomando, nessuno giochi sporco con queste mie affermazioni: non sto dicendo che è meglio, che bisogna stare da questa parte. Sto soltanto dicendo che mi ci sono trovato avendo fatto scelte professionali, avendo valutato i pro e i
contro e tantissime sfumature (e già questo renderebbe difficile svegliarsi una mattina con un problema etico irrisolvibile). Come risulta chiaro a chiunque sia in buonafede, ho i miei dubbi, la voglia di capire meglio, i tormenti. Ma me li coltivo con cura e anche - come ho detto - con l’idea che stare dalla
parte sbagliata (se è sbagliata) è molto stimolante.
E poi, in ogni caso, l’ultimo momento in cui abbandonerei la mia casa editrice è questo, quando tutti sono lì fuori e aspettano di vedere chi è Don Abbondio e chi no. Se avessi sentito di andarmene, me ne sarei andato in silenzio e in solitudine, in tempi sereni. Mentre adesso, sono tutti lì fuori ad aspettare per applaudire chi esce, e per fischiare chi resta. Ed è un clima che non mi piace. Quindi, resto; perché uscire soltanto per essere applaudito e indicato, non me la sento; uscire per mia volontà non me la sento; uscire sotto i riflettori non mi piace. Me ne sto qua, nella casa editrice Einaudi di proprietà di Silvio Berlusconi. Sperando con tutto il cuore che smetta di essere presto la casa editrice di proprietà del premier.
Come cittadino cerco di combattere la mia battaglia ogni giorno, con tutti i mezzi che ho. Come intellettuale, se si può definire così chi esprime in modo costante le proprie idee su un quotidiano, cerco di essere libero, razionale e sincero, e cerco di non farmi arruolare in nessuna crociata, perché non credo sia quello il ruolo giusto di chi prova a comprendere i fatti. Come scrittore, puntare ad avere la coscienza a posto - fatto dignitosissimo - mi sembra, francamente, un risultato un po’ scarso.