Vincenzo Sansonetti, Oggi, n. 35, 1 settembre 2010, pag. 76, 1 settembre 2010
L’INTERVISTATORE
Con 500 "tipi italiani" batto un record mondiale
Di professione fa il giornalista. Anzi, l’intervistatore. La cosa che sa far meglio è, come ama dire, «rubare l’anima» alle persone, cavar fuori da tre ore di chiaccherata la loro vita, i loro ideali, i loro sogni e le loro sconfitte. Per aver messo in fila, dal 23 giugno 1999, ben 500 interviste della serie Tipi italiani (pubblicate ogni domenica a tutta pagina sul quotidiano il Giornale) Stefano Lorenzetto da Verona, 54 anni, si è guadagnato un posto nel prestigioso Guinness dei primati. Nessuna serie di interviste al mondo vanta gli stessi numeri. E messe inseime, una dopo l’altra, sono lunghe il doppio della Bibbia.
L’ULTIMA ALLA GELMINI
Che cosa si prova a essere diventati famosi?
«Niente di particolare. Mi fa piacere. Ma continuo nel mio lavoro. Non mi fermo».
Cioè altre interviste?
«Sì. Non faccio altro».
Ma sono davvero 500?
«No, di più. La serie dei Tipi italiani va avanti, senza interruzione. L’ultima intervista è stata al ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini. Ma in totale, tenendo conto di altre precedenti o pubblicate su altre testate, le interviste sono più di 600».
Non è un pò noioso...?
«No, per niente. Anzi, mi piace moltissimo».
Vip o gente comune?
«Prevale la gente comune. Il rapporto è 9 a 1. I miei intervistati diventano, semmai, famosi dopo».
Chi sono?
«Tutti. Dalla madre di famiglia all’imprenditore, dal personaggio un pò strano al tipo molto serio».
Che cosa li accomuna?
«Il fatto che abbiamo qualcosa di importante da dire».
Come li scova?
«In vari modi. Un cenno su di loro su un giornale, che mi incuriosisce. Oppure il bisogno, legato all’attualità, di cercare il massimo esperto in un certo settore; per esempio la geologia e la vulcanologia, se c’è appena stato un terremoto».
E li trova? Sono disponibili?
«Sì, li trovo quasi sempre. Magari con fatica, o dopo aver vinto qualche resistenza iniziale, ma li trovo».
Che impegno comporta un’intervista?
«Tre giorni, a volte di più».
Come...tre giorni?
«Sì. Un giorno per preparare le domande. Un giorno per l’intervista vera e propria (compreso il viaggio). E un giorno per scriverla».
Quante domande?
«Almeno cento, di solito. Poi ne scelgo una quindicina, quelle con le risposte più significative».
Taccuino o registratore?
«Tutt’e due. Registro sempre, ma scrivo anche velocemente. E fitto fitto. Parto poi dai miei appunti, per scrivere. Ascolto la registrazione soltanto quando serve, per riportare con precisione una frase, o per controllo».
Contestazioni?
«Mai».
Strano. Com’è possibile?
«Bè, cerco di essere fedele a quello che mi vien detto. Non manipolo, non aggiungo, non stravolgo. Solo una volta, dopo che ebbi mandato il testo ad Hammamet, Bettino Craxi mi chiese di aggiungere che aveva nostalgia dei nostri pomodori e della nostra mozzarella, e che se li faceva mandare in Tunisia. Ma non era una correzione».
Non è troppo un giorno intero per scrivere?
«Un giorno mi basta appena. Sono un pignolo, un cesellatore. Mi ricordo che lo scrittore Aldo Busi, la prima volta che lesse (per caso, a dire il vero) una mia intervista, fu colpito proprio dallo stile, dalla scrittura ben costruita. Che non si improvvisa, ma è frutto di un lavoro continuo e costante».
Questo record cambierà qualcosa nel suo stile, nel modo di scrivere?
«No di certo. Andando avanti, non potrò che migliorarlo. Settimana dopo settimana».
C’è ancora qualcosa da imparare nel mestiere di stakanovista degli intervistatori?
«Sì. C’è sempre qualcosa da imparare. Non mi sento affatto al top. Si cresce nella scrittura, ma si cresce anche in umanità. Le persone che incontro mi insegnano sempre qualcosa».
«Tipi» buoni o «tipi» cattivi, quelli che incontra?
«In gran parte tipi buoni. In tutti c’è qualcosa di buono».
Come inizia l’intervista?
«Nel modo più semplice possibile. Ci si stringe la mano, ci sediamo, si comincia».
Interviste faccia a faccia?
«Ovvio. Altrimenti niente. Ho bisogno di avere l’intervistato di fronte, di osservare come è vestito, che cosa fa, quali sono i suoi tic...».
E funziona?
«Sì. Il linguaggio del corpo, o le parole dette fuori dall’intervista vera e propria, mettono a fuoco meglio il personaggio».
Quanto dura l’intervista?
«Da due a tre ore. Meno non si può. Se non ho a disposizione almeno due ore, non la faccio».
Che cosa si scopre?
«Innanzitutto l’anima della persone che si ha davanti. Domanda dopo domanda, con discrezione, cerco di penetrare nell’intimo dell’intervistato. Perchè poi il mio lettore possa capire chi è, nel profondo, coglierne l’essenza».
Ed è facile?
«No. Richiede esercizio, sensibilità. E mancanza di pregiudizi. Io non ho mai pregiudizi. Ho rispetto. Ascolto. E scrivo».
L’intervista mai fatta?
«Mi sarebbe piaciuto intervistare mio padre Giuseppe. Purtroppo sono in ritardo di 20 anni: è morto nel 1990. Gli avrei chiesto come ha fatto a essere felice tenendosi tutta la vita la stessa moglie, facendo il calzolaio e lavorando 15 ore al giorno affinché i cinque figli maschi potessero studiare, potendo contare solo sul "libretto di povertà" del Comune, neanche sulla mutua, che a quel tempo per gli artigiani non c’era».
Cosa si prova a essere intervistati, anziché intervistare?
«Sono terrorizzato. Peggio di un bulldozer. Ma per fortuna è finita».