Carlo Lania e Maria Luisa Mastrogiovanni, il manifesto 26/8/2010, 26 agosto 2010
DORMITORIO NELL’INFERNO
«Non si tratta di detenzione. Non sono detenuti. Quindi non si configura il reato di evasione. Loro lo sanno e ci provano». Erminia Cicoria, il capo di gabinetto della prefettura di Brindisi, ci accompagna nelle tre ore che trascorriamo al Restinco, il Cie che accoglie gli ultimi migranti sbarcati in questi giorni di scirocco nel basso Salento, stipati nelle stive di barche a vela di lusso. Li incontriamo: hanno passato quattro giorni nella stiva della barca. Hanno passato il confine con la Turchia a piedi, provenienti dall’Iraq. Ad Aksaray, un quartiere di Istanbul, hanno incontrato l’organizzazione a cui hanno pagato settemila dollari a persona. Ieri sera da Restinco hanno chiesto asilo politico.
Gli altri, da lì, solo in agosto, ci hanno provato cinque volte a scappare. La maggior parte sono stati ripresi, con le buone o con le cattive. E ne portano tutti i segni. Cinque di loro, che fanno parte del gruppetto che sotto ferragosto hanno impilato un po’ di armadietti per salire sul tetto e poi scavalcare il muro di sei metri, hanno un braccio o una gamba rotti. «Sono caduti dal muro», spiega Erminia Cicoria. Ma tre su cinque negano.
L’interprete dall’arabo, messa a nostra disposizione dal direttore del Centro, Nicola Lonoce, ci traduce la loro versione: «Macché cadute. Ci hanno picchiato con i manganelli». Disteso per terra su un materasso trascinato nel cortile dagli altri ospiti del centro, Morad Bigawi tunisino di 18 anni, con piede e gamba sinistra ingessati, ci mostra vistosi ematomi sul braccio, spalla e coscia destra. Racconta di essere stato picchiato dagli agenti di polizia e guardia di finanza, che lo hanno riacciuffato per le campagne, mentre cercava di scappare.
È più o meno quello che racconta Jbeli Moura, tunisino di 34 anni. È stato in prigione un anno e sei mesi per spaccio. Ha scontato la sua pena ma, per una beffa kafkiana tipica della burocrazia italiana, invece di essere rimpatriato direttamente dopo essere uscito dal carcere, come tutti quelli nella sua condizione, passa da un Cie, dove può accadere che trascorra anche diversi mesi prima di tornare in patria. Così Moura, che ha la famiglia in Belgio, cerca di fuggire, si rompe o, a quanto dice lui, gli rompono un braccio per impedirgli la fuga. Intanto è lì, in un «centro di identificazione ed espulsione», nonostante non abbia bisogno di essere identificato, perché è già stato in un carcere italiano.
Storia simile a quella di Rezamag Mahdi, tunisino di 38 anni, ha sposato una cittadina francese da cui ha avuto tre figli, di dieci, sette e cinque anni. Viveva a Grenoble con la sua famiglia. In Italia in vacanza, racconta di aver picchiato un poliziotto che a suo dire aveva offeso sua moglie e per questo ha scontato due mesi nel carcere di Ravenna e quattro a Foggia. Ora è stato trasferito a Restinco, nonostante non solo sia stato abbondantemente identificato nel carcere, ma, soprattutto, nonostante abbia permesso di soggiorno, patente e carta d’identità francesi. È arrivato lì da poche ore e il capo di gabinetto chiede al direttore del Centro di verificare quella che sembra una situazione a dir poco anomala. Rezamag faceva l’artigiano, ristrutturava appartamenti. Ci mostra la sua tessera di iscrizione alla Camera di commercio francese. Parla a bassa voce, ha modi pacati ma decisi.
Fanno a gara per poter raccontare la loro storia. Ci seguono mentre visitiamo le stanze per i colloqui che si tengono con gli psicologi, i consulenti legali, gli assistenti sociali, i mediatori culturali. Sono servizi, questi, previsti dal capitolato d’appalto della gara vinta dal consorzio Connecting people, che gestisce Cie e Centri di accoglienza in tutta Italia.
In particolare devono garantire: 54 ore settimanali di assistenza legale; 24 di assistenza psicologica; 24 di assistenza sociale; 156 di mediazione; 24 ore di insegnamento della lingua italiana. Sono corsi frequentati soprattutto dai migranti ospitati all’interno del «Cara», il centro di accoglienza per i richiedenti asilo politico che oggi accoglie 60 persone. Vivono in moduli prefabbricati che diventano roventi sotto il sole del Salento, anche perché l’aria condizionata è rotta e in tutto il Centro non c’è una chiazza d’ombra o la traccia di un albero che dia un po’ di tregua e di respiro. Per questo gli ospiti del Cie, oggi 40, si trascinano dalle stanze alla mensa e dalla mensa al cortile. Nel cortile il sole è a picco e l’unica ombra è quella di due grandi gazebo sotto i quali nessuno trova ristoro, perché il pavimento di cemento restituisce il doppio del calore che assorbe.
Per questo, siccome l’unico posto fresco è la mensa, portano lì i materassi, e passano le ore, i giorni, i mesi. Fino a sei, entro i quali devono ritornare in patria. In fondo al corridoio, alcuni tappeti sono sistemati per la preghiera. È il periodo del Ramadan e la maggior parte di loro è osservante. Ci fanno vedere i dormitori, stanze da 12 posti con sei letti a castello; i bagni, alla turca, dove mancano molte porte. «Le divelgono - dice il capo di gabinetto della Prefettura - e dal nostro punto di vista è educativo che comprendano che, se rompono una cosa, questa non viene automaticamente sostituita. Devono essere responsabili. Intanto noi eliminiamo tutto ciò che può essere utilizzato per la fuga». Come le porte del campetto di calcetto. Fino ad un anno fa, quando Restinco era solo un Centro di accoglienza, prima di diventare Cie il 14 agosto dell’anno scorso, il campetto era usato dai «richiedenti asilo». Da allora, da un lato un muro e dall’altro un semplice cancello rinforzato separano una zona dall’altra.
Di fatto è un’unica struttura presidiata da Carabinieri, polizia, Guardia di finanza e dal vicino Battaglione San Marco, che anche per ragioni di «contiguità» viene chiamato per le emergenze. Come per esempio sedare le risse o le rivolte, anche perché, come più volte lamentato dai rappresentanti del Sappe (sindacato autonomo polizia penitenziari) di Brindisi, si lavora in carenza di organico e si ha la tentazione di lasciar fare agli altri il «lavoro sporco» dell’acciuffare chi scappa o bloccare i tafferugli. Intanto ogni giorno continuano ad arrivare qui, come dice Cherif Hamdi, mostrando il suo braccio contuso che non riesce a muovere, «per lavorare, non per essere picchiati».