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 2010  agosto 27 Venerdì calendario

NESSUNO URLA PER I VERI LICENZIATI


È paradossale e anche un po’ grottesco il coro levatosi in difesa dei tre licenziati dello stabilimento Fiat di Melfi reintegrati in azienda dal giudice del lavoro. Una intemerata collettiva contro i cattivoni del Lingotto, proprio mentre migliaia di lavoratori non vengono licenziati per «giusta causa», ma per la dura lex del mercato in crisi, per gli errori gestionali delle imprese e per una politica industriale inadeguata di cui possono ritenersi resposabili tutti i governi succedutisi negli ultimi decenni.

Il non più mitico Nordest docet: 41 mila posti in meno in Veneto nell’ultimo semestre rispetto all’anno precedente e, ciliegina sulla torta, i 150 operai della Gatorade (Pepsico), azienda con i conti a posto, mandati a casa ieri.

Per non parlare delle questioni ancora aperte e drammatiche del polo chimico di Marghera, con Montefibre, Vinyls e Sirma sull’orlo del baratro e una tensione sociale altissima.

Su tutto questo, là in alto, nessuno fiata. Invece a tirare le orecchie all’ad Sergio Marchionne è intervenuto, caso più unico che raro, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano; e, tra gli altri, i Vescovi e il ministro dei Trasporti Altero Matteoli secondo cui «le sentenze vanno sempre rispettate e non a corrente alternata».

Il fatto è che la Fiat, come spiegato ieri dalla presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, ha seguito la prassi, reintegrando nello stabilimento di Melzi i tre operai nel pieno rispetto del pronunciamento del tribunale. Ma per il buonismo imperante un reintegro in azienda, ordinato da un magistrato, con tanto di stipendio non basta: i lavoratori, secondo la Fiom e il Colle, devono tornare là dove si trovavano, stesso reparto, stesse mansioni.

Hanno sabotato la Fiat, ma la Fiat dovrebbe far finta di niente. Pur avendo fermato un carrello robotizzato bloccando l’intera produzione e impedendo a quanti non partecipavano alla protesta di una ristretta minoranza di continuare a lavorare, i tre andrebbero perdonati e rimessi al loro posto. Vogliamo anche dar loro un premio speciale?

Ora va ricordato a quanti sono soliti dimenticare, che tutti i dipendenti sono ospiti retribuiti e non azionisti della ditta in cui lavorano, che è l’azienda a decidere quale debba essere il ruolo di lavoratori e dirigenti, al primo impiego, in età pensionabile o reintegrati che siano.

Invece secondo quanti auspicano una «soluzione positiva» (vale a dire darla vinta a chi mette i bastoni tra le ruote al datore di lavoro) l’azienda cui è stato procurato un danno dovrebbe chinare il capo e assecondare tutti senza se e senza ma.

Per questo è impensabile che, a seguito dei ricorsi presentati dai sindacati, i giudici possano dar ragione a quanti vogliono negare a un’azienda, piccola, media o grande, di provvedere direttamente all’organizzazione del lavoro. Verrebbe delegata a terzi una prerogativa della proprietà: una sentenza di questo genere sarebbe un precedente di una gravità inaudita.

Eppure è questa la protervia dei nemici dell’impresa, quelli che tirano i remi in barca sputano nel piatto in cui mangiano senza però sognarsi nemmeno lontanamente di cercare un’impresa più consona al loro rango. È il sistema Santoro, che, reintegrato in Rai dal giudice, non si accontentava di poter tornare in video, ma voleva il “suo” microfono. E ovviamente alla fine l’ha avuto, alla faccia del cda di viale Mazzini. È la cultura sessantottina dura a morire contraria al profitto e a lavoro che ancora oggi strangola le aziende per poi chiedere aumenti astronomici e nuove assunzioni e protestare contro inevitabili delocalizzazioni. È la politica della contrapposizione «a prescindere» che ieri al meeting di Rimini ha indotto lo stesso Marchionne ad auspicare il superamento degli staccati, l’anacronistica lotta padroni-operai e un «patto sociale» che, in un clima diverso, consenta alle imprese di ritornare a produrre e a fare utili e quindi ad assumere altro personale, nonostante la pressione fiscale altissima e il mantenimento di quell’Irap che tarpa le ali proprio agli imprenditori che vogliono e possono crescere.

Ma «patto sociale», checché ne possa pensare la Cgil sempre sulle barricate (non a caso Marchionne ha ringraziato solo Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti e non Guglielmo Epifani) non significa dover dialogare con i sordi o sottostare ai diktat di quanti dall’esterno, come nel caso della Fiat di Melfi, vorrebbero condizionare pesantemente, non avendone titoli e legittimità, l’autonomia dei vertici aziendali. E nemmeno dar la precedenza ai diritti di tre ostruzionisti a danno di un esercito di lavoratori irreprensibili in mobilità.