Antonio Pascale, Gioia 3/9/2010 (uscita 26/8), 3 settembre 2010
BUROCRATI
Ventuno anni fa sono stato assunto nell’allora ministero dell’Agricoltura. Un collega universitario, incrociandomi nei
corridoi della reggia di Portici, dove ha sede la facoltà d’Agraria,
mi aveva parlato di questo concorso: bastava il titolo di perito agrario e io ero perito agrario. Però ero anche scettico. Di fare il burocrate. Era l’ultimo dei miei pensieri. Il mio collega allargò le braccia: anche tu con questa storia del burocrate? Mi suggerì allora di leggere la definizione anglosassone di burocrate.
Lessi questa definizione: civil server. Effettivamente. Bella, pensai, servitore civile, altra cosa rispetto al burocrate, e mi avviai con animo rasserenato al concorso.
Non appena entrato al ministero fui preso invece da uno scoramento: quelle facce stanche, quegli uomini che ora incrociavo nei corridoi, lo sguardo spento, il passo mogio come quello di un animale al pascolo. Stavo per entrare in un mondo che mi avrebbe imprigionato? Un burocrate, altro che civil server. La scrivania piena di carte, i timbri per certificare chissà cosa, le abitudini consolidate, i ritmi indolenti.
Le sensazioni furono interrotte da un consiglio datoci, eravamo una ventina di giovani neo assunti, da un direttore generale. «Leggetevi prima di cominciare gli art. 97 e 98 della Costituzione». Che così recitano: «I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione». E poi: «I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione». Per la seconda volta in vita mia pensai: che belli. Basta sensazioni di scoramento, sarei stato al servizio esclusivo della Nazione e avrei assicurato il buon andamento e l’imparzialità.
Qualche giorno dopo un dirigente mi chiamò nella sua stanza. Aveva sulla scrivania colonne di cartelline, una pila, una sopra all’altra, una a destra l’altra a sinistra, disegnavano due pilastri: in mezzo c’era il dirigente. Mi disse: «Pascale, tu sei nuovo, allora fammi un piacere, leggiti questa circolare, è ancora in bozze e devo portarla al ministro, dimmi se capisci o non capisci di cosa parla».
Io, che mi ritenevo a tutti gli effetti un civil server, al servizio esclusivo della Nazione, tutto contento cominciai a leggere. Per farla breve: non capii niente. Le subordinate si sprecavano, confondendo il pensiero e spezzando la trama in rivoli, i commi si amplificavano come bolle di sapone, A1 Aa1 A.a1. Pensai che una mente alienata avesse partorito quel testo durante un delirio. Così tornai dal dirigente e gli dissi, schiarendomi un po’ la voce e cercando di assumere una posizione consona al civil server al servizio della Nazione: non ho capito niente. Il dirigente allora si tolse gli occhiali e mi guardò, e, incorniciato dai due pilastri di cartelline, assunse anche, o così mi sembrò, un’espressione dignitosa. Mi rispose: «Allora è perfetta».
Una battuta d’accordo, ma anche una prima lezione. «Le leggi in Italia non devono mai essere chiare, perché se lo sono noi con la chiarezza forniamo potere a chi legge. Invece il ministero deve mantenere il potere dell’interpretazione. L’oscurità ha i suoi vantaggi. Te ne accorgerai».
Me ne accorsi, effettivamente. Cominciai a frequentare le riunioni tra Stato, Regioni e Enti vari. Una in particolare fu significativa. La legge sulle calamità naturali consente a coloro i quali sono stati colpiti da calamità naturali di avanzare richiesta di risarcimento. Le Regioni raccolgono le richieste, la valutano, le purificano dalle eventuali impurità e le propongono al ministero. È una buona legge, chi ha subito un danno per un temporale viene risarcito.
Ma in quella riunione erano presenti svariati soggetti e tutti, nessuno escluso, avanzavano richieste di risarcimento, anche se a ben vedere solo pochi avevano subìto il danno. Era in atto una specie di effetto domino: tu hai subìto il danno, io no, però avanzo lo stesso la richiesta, non si sa mai. Insomma, i soggetti si ritenevano Stato quando dovevano prelevare dalle casse dello Stato, non Stato quando doveva responsabilmente stabilire se il danno c’era o non c’era.
Ma, pensai, se i soggetti di questo Stato italiano, culturalmente parlando, si ritrovano incapaci di assumersi una responsabilità, allora, quel dirigente faceva bene a produrre circolari ambigue? Visto l’andamento di quella riunione, l’interpretazione della Legge era un modo per quel dirigente di decidere: a te sì, a te no. Ero confuso, sfruttavo anch’io come civil server le ambiguità dell’oscurità solo per servire il buon andamento della Nazione?
La cosa terribile però era questa: dal ’90 era in vigore un bella legge, la 241, o legge sulla trasparenza, che cambiava i connotati della Pubblica amministrazione. Ora non c’erano più due contendenti, amministrato che subisce le decisioni e amministratore che le impone, ma due parti della stessa entità: Stato e Cittadino. Entrambi responsabili, entrambi devono favorire la buona circolazione delle informazioni.
La cosa terribile, dicevo, era questa: in pochi al ministero si erano accorti di questa legge. Ci sono voluti anni affinché le cose potessero migliorare e io e il dirigente e tanti civil server, diventati più responsabili, ci siamo sforzati di essere chiari, convinti che chiarezza e democrazia vadano insieme, non può esistere l’una senza l’altra. Perché l’oscurità invecchia, la chiarezza rende giovani e curiosi.