Ennio Caretto, Corriere della Sera 26/08/2010, 26 agosto 2010
QUANDO ROOSEVELT CHIESE AIUTO AL BOSS LUCKY LUCIANO
Due febbraio 1942. In piena seconda guerra mondiale, il transatlantico francese Normandie, la più grande nave del mondo, s’incendia e si capovolge nel porto di New York. Per l’Fbi, la polizia federale, e per l’Oni, l’Office of naval intelligence, è opera di 007 nazisti nascosti nella Grande mela, o degli U boats tedeschi immersi nelle sue acque. Nei due mesi successivi al bombardamento giapponese di Pearl Harbour, il 7 dicembre 1941, il nemico ha già affondato 48 mercantili americani nell’Atlantico. La catastrofe della Normandie conferma che è urgente difendere i quasi mille km del fronte del porto dagli attentatori e dai sabotatori. Da esso passa ben un quarto dei commerci degli Stati uniti e partono centinaia di migliaia di soldati e tonnellate di armamenti, e a esso approdano masse di rifugiati anonimi e celebrità come Marc Chagall e Salvator Dalí. Se il porto venisse bloccato, si rischierebbe di perdere la guerra. Un’inchiesta successiva stabilirà — ma sarà vero? — che l’incendio della Normandie fu accidentale. Ma non cambierà l’ordine dato nel frattempo dal presidente Franklin Delano Roosevelt di proteggere con ogni mezzo il fronte del porto. Come, lo svelerà un rapporto segreto dell’FBI. «La Procura di New York e il DIO o Dise manovre eversive della Milizia cristiana, una delle progenitrici di quelle attuali, alle battaglie tra l’American German Bund, un’associazione schierata con Hitler, e i giovani ebrei americani. Pochi newyorchesi ebbero sentore della «Operation under world», come l’OSS, l’Office of strategic services, che svolse una funzione chiave in Italia, e da cui sarebbe poi nata la CIA, battezzò la mobilitazione della mafia. Il successo della operazione, condotta dalle autorità «turandosi il naso», indusse lo stesso OSS a servirsi di «Lucky» Luciano per lo sbarco del 1943 in Sicilia, la sua terra natale, sempre con il consenso di Roosevelt. Il capo dei capi, trasferito in un più comodo carcere, si rivolse all’omologo siciliano Calogero Vizzini per l’intelligence e la logistica. Casse di armi, munizioni, medicinali e viveri con la scritta cubitale «L. L.» vennero paracadutate in Sicilia, informazioni e guide vennero fornite al Pentagono. Più tardi, la liberazione dell’isola fruttò a Vizzini il grado di colonnello onorario dell’esercito Usa e a «Lucky» Luciano l’estradizione. In una lettera del 1946 a Thomas Dewey, il tenente Charles Haffenden, uno 007 della marina, ne caldeggiò la causa: «Gli dobbiamo molto, ci ha permesso di cogliere il nemico di sorpresa». Sebbene libero, il gangster lasciò malvolentieri gli Stati uniti. In Helluva town, Richard Goldstein non segue le sorti del «padrino» in Italia. Si sofferma invece sulla condotta dei newyorchesi, che lavorano più intensamente del solito per dare un contributo «ai ragazzi al fronte», ma che non rinunciano al cinema, al teatro, ai ristoranti, neppure davanti alla minaccia degli U boats e degli attentati, e ristrict intelligence organization della marina» scrive l’FBI «hanno preso contatto con la mafia che controlla il traffico portuale e il sindacato». Il loro tramite è Meyer Lansky, il gangster ebreo socio e amico di Charles «Lucky» Luciano, il capo dei capi. Dal 1936, L.L., com’è anche chiamato, sconta in un carcere di massima sicurezza dai 30 ai 50 anni per sfruttamento della prostituzione. Ma è disposto ad adoperarsi per l’America. E ordina a uno dei suoi fidi, Albert Anastasia, di vietare scioperi, di inserire ufficiali di marina tra i portuali, e di fare presidiare il porto dai mafiosi. Di questa straordinaria collaborazione tra Roosevelt, i servizi segreti americani e il governatore dello stato di New York Thomas Dewey da un lato (Dewey è l’ex procuratore speciale che ha incastrato «Lucky» Luciano) e cosa nostra dall’altro, parla Richard Goldstein, un giornalista del New York Times, in un nuovo libro intitolato Helluva town, o Diavolo di città come diremmo noi. Il titolo del libro viene da un musical di Leonard Bernstein, On the town, del dicembre 1944, che racconta delle 24 ore trascorse da tre marinai nella Grande mela. Il libro è un affresco della vita in una New York tenuta oscurata a causa della guerra, Statua della libertà compresa, dove 60 mila volontari sorvegliano il mare e il cielo per dare l’allarme in caso di attacchi. Ma rende chiaro che se il porto di New York, «il bersaglio numero uno» di Hitler, esce indenne dal conflitto, il merito è in gran parte della mafia. Che «Lucky» Luciano avesse collaborato con Roosevelt e il Pentagono era noto. Goldstein aggiunge tuttavia che cosa nostra partecipò alla difesa anche degli altri principali porti dell’Atlantico e del Pacifico, alla cattura di agenti della Abwehr, il potente spionaggio militare nazista, e al repulisti dei fascisti e dei comunisti dai sindacati. E che garantì la sicurezza portuale a New York, mentre altrove in città scoppiavano gravi disordini, dagli scontri razziali di Harlem nel 1943 alle pericolomane un polo d’attrazione per l’America. Il giornalista narra che quando un poliziotto ferma un autobus, e ordina ai passeggeri di scendere in un rifugio nel corso di una esercitazione, essi protestano di «non avere tempo da perdere», e l’autobus riparte con tutti a bordo. La città che non si ferma mai è coerente a se stessa e Luciano ne sente la mancanza. Il padrino, che durante la guerra in Italia si tiene sempre in contatto con i comandi americani, non abbandona l’attività mafiosa. Dall’Italia, si reca clandestinamente a Cuba, dove divide i proventi dei casinò con il dittatore Fulgencio Batista, nel tentativo di riprendere il controllo di cosa nostra in America, passata sotto la gestione dal «consigliere» Frank Costello. Muore, ufficialmente d’infarto, all’aeroporto a Napoli nel 1962, all’età di 65 anni, mentre sta partendo per l’America, e viene sepolto a New York, come aveva chiesto.
Ennio Caretto