Massimo Gaggi, Corriere della Sera 26/08/2010, 26 agosto 2010
SE I GENERALI SFIDANO IL PRESIDENTE SU KABUL
«White » sussurra Barack Obama mentre i suoi collaboratori si dispongono attorno al tavolo dei vertici mattutini. «Medium» gli risponde con un ghigno il suo capo di gabinetto Rahm Emanuel. La «gag», ormai una specie di tormentone, si è probabilmente ripetuta alla Casa Bianca anche ieri, dopo la sortita di un altro generale — stavolta è toccato a James Conway — che ha criticato la strategia del presidente nella guerra in Afghanistan. Per il capo del corpo dei marines la volontà, espressa da Obama, di avviare il ritiro delle forze Usa dal Paese nel luglio del 2011 funziona, di fatto, da incoraggiamento ai talebani.
Dopo aver cacciato a giugno il generale Stanley McChrystal, che in un’intervista aveva usato espressioni irriguardose nei confronti dei responsabili della diplomazia Usa e dello stesso presidente, dopo aver incassato i rilievi non proprio amichevoli di David Petraeus, da lui appena scelto per sostituire McChrystal alla guida delle forze alleate in Afghanistan, Obama sembra aver reagito più con indignata rassegnazione che con vampate di rabbia alla nuova staffilata di un comandante che già in passato si era segnalato per la sua mancanza di peli sulla lingua — lo stile ruvido tipico dei marines — e che a fine anno andrà in pensione.
Mentre la situazione economica e occupazionale continua ad avvitarsi in un incubo che non sembra avere fine, il presidente deve fronteggiare crescenti contestazioni interne e dall’estero per come gestisce le sfide nelle «zone calde» del mondo. Obama attaccato per il ritiro dall’Iraq che, secondo i generali di Bagdad, rischia di far precipitare di nuovo il Paese nel caos. Obama ancora bloccato in uno stallo con l’Iran mentre il ticchettio del conto alla rovescia nucleare si fa sempre più assordante. Obama criticato perfino per la ripresa dei negoziati di pace tra Israele e i palestinesi, la settimana prossima a Washington, che, secondo molti, non hanno alcuna possibilità di andare in porto.
E allora «white e «medium», le battute con le quali, come ha raccontato lo stesso Emanuel a «Vanity Fair», il presidente scherza col suo chief of staff, ricordando un colloquio di qualche mese fa: un Obama che, particolarmente esasperato dall ’enorme complessità e apparente insolubilità di molti problemi economici e politici che ha davanti, irritato dai continui attacchi dell’opposizione e di una parte del suo stesso partito, dice con amara ironia: «Quando tutto questo sarà finito, non voglio più sentir parlare di problemi e decisioni complesse da prendere: ce ne andremo su una spiaggia delle Hawaii a vendere magliette. E anche lì, non voglio complicazioni: un solo colore e taglia unica».
In effetti essere attaccato sull’Afghanistan per Obama deve essere davvero insopportabile. Passi per l’Iraq: quella non è la sua guerra. È un conflitto scatenato sulla base di rapporti di intelligence rivelatisi privi di fondamento. Un’eredità sgradita lasciatagli da Bush della quale il presidente democratico cerca di liberarsi il più presto possibile, anche a costo di qualche pericolosa forzatura.
Ma quella dell’Afghanistan è la sua battaglia, la campagna sulla quale sarà giudicata, in buona parte, la sua presidenza. Il presidente ha sfidato i progressisti che l’hanno sostenuto nella campagna elettorale del 2008 e che hanno fornito il grosso dell’esercito di volontari che ha lavorato giorno e notte per portarlo alla Casa Bianca: gente che considera non solo l’Iraq ma anche l’Afghanistan altrettanti Vietnam dai quali uscire senza incertezze. Obama ha invece scelto di rafforzare il contingente Usa a Kabul per contrastare l’offensiva talebana, promettendo al tempo stesso che, una volta sgominati o costretti sulla difensiva gli insorti, le truppe alleate cominceranno a passare le consegne, già fra un anno, al nascente esercito afghano.
Il significato politico della mossa del presidente è chiaro. Non solo il tentativo di contenere le contestazioni che gli arrivano da sinistra, ma anche un monito ai politici e ai militari di Kabul: rimboccatevi le maniche anziché continuare a ripararvi dietro lo scudo americano. I generali Usa fanno però notare, giustamente dal loro punto di vista, che un messaggio di questo tipo rischia di ridare fiducia ai talebani proprio mentre l’offensiva del contingente Nato tenta di metterli con le spalle al muro. Mentre cominciano a vedersi i primi risultati positivi nelle province ribelli del sud, Helmand e Kandahar, i talebani, anche laddove subiscono fortissime perdite, possono pensare che, se riescono a resistere per un anno, avranno partita vinta.
Calibrare i messaggi, per il presidente non è facile e il fatto che i capi militari si sentano in diritto di prendere pubblicamente le distanze — limitatamente ma in modo sempre più aperto — dalla sua linea, è un segnale molto preoccupante.
Massimo Gaggi