Massimo Mucchetti, Corriere della Sera 26/08/2010, 26 agosto 2010
ECCO DOVE C’E’ DA IMPARARE
Grande è il clamore sui tre delegati sindacali licenziati a Melfi e infimo l’interesse per il crollo delle vendite della Fiat in Italia. Qualcosa non torna. Nell’economia reale, l’andamento commerciale dipende dai prezzi e dalla qualità dell’offerta, e non solo dalla fine degli incentivi pubblici, che riguardano tutte le marche. Nel rumoroso teatrino politi-co-sindacale, alimentato anche dall’ azienda, il reintegro dei ribelli nel posto di lavoro diventa la questione centrale dalla cui soluzione dipende la disciplina di fabbrica in tutto il gruppo. E questa, che si concretizza nell’accettazione di una più elastica tutela sindacale, viene presentata come la condizione per trattenere gli investimenti della Fiat nel Paese.
È possibile che la sentenza di primo grado (da rispettare nel frattempo) venga riformata in appello. In tal caso la Fiom sarà costretta a fare le riflessioni, finora evitate, sull’abdicazione dal ruolo contrattuale che è implicito nel ricorso alla magistratura. Ma questo è un affare interno di Fiom e Cgil, una cosa limitata. La conflittualità sindacale non è un problema da anni: lo certificano le statistiche sulle ore perse per scioperi, anche in Fiat. Chi dunque vuole difendere la vocazione manifatturiera dell’ Italia, e a questo scopo giudica indispensabile mantenervi un forte insediamento produttivo automobilistico, non può illudersi che il topolino della questione sindacale (certo, da risolvere) partorisca la montagna della tenuta nazionale di un grande gruppo globalizzato.
Se l’Italia avesse un ministro dello Sviluppo economico (a quasi quattro mesi dalle dimissioni di Claudio Scajola, il premier non l’ha ancora indicato), questi guarderebbe seriamente oltre confine. Nella Germania dei miracoli, le case automobilistiche tornano al profitto grazie alla costanza degli investimenti industriali e della ricerca. I blitz — anche la riuscitissima 500 di Sergio Marchionne — sono dei bengala che squarciano il buio, ma poi serve il lavoro regolare di anni, l’accumulo di saperi che non si smontano ogni tre anni, la capacità di capire i talenti, il coinvolgimento delle maestranze. La Volkswagen ha un socio pubblico, il Land della Bassa Sassonia, assieme a tanti privati. Che abbia aiutato a tenere diritta la barra della crescita industriale che ha portato il gruppo di Wolsburg al primato mondiale e a mangiarsi infine la Porsche che la voleva scalare? I lavoratori tedeschi partecipano alle decisioni strategiche. I sindacati hanno la metà dei consigli di sorveglianza, non in virtù di partecipazioni azionarie, ma per il ruolo riconosciuto al lavoro. In contropartita, salari e orari possono variare secondo la congiuntura.
Negli Usa, i sindacati sono entrati nei board non per inseguire il modello tedesco, ma per tutelare le azioni ricevute in cambio della cancellazione dei crediti sanitari. Le loro rappresentanze sono largamente inferiori alla quota di capitale posseduta. Ma il loro vero tutore è la Casa Bianca, la quale condiziona gli aiuti alla difesa del made in Usa. Il presidente Obama (progressista) presta miliardi di dollari a Marchionne non per delocalizzare ma per tenere aperti in patria quanti più stabilimenti possibile di una Chrysler altrimenti fallita e rifiutata da tutti. La stessa finalità persegue in Francia il presidente Sarkozy (conservatore) con Renault e Psa, senza attendere le difficoltà di Detroit. E la Renault esibisce tuttora una presenza dello Stato nel capitale, mentre Psa, interamente privata, è controllata da una famiglia, i Peugeot, che fa parte di un establishment con forti sentimenti nazionali.
In Italia, le esperienze internazionali vengono trattate in modo strumentale. La codecisione, per esempio, viene declassata alla compartecipazione ai profitti (in Fiat c’è ed è magra) o all’azionariato dei dipendenti (non sempre consigliabile).
Ma i punti sui quali un ministro dello Sviluppo economico avrebbe da lavorare, riunendo tutte le parti in causa, sono i quattro di sempre: a) quanto reddito bisogna produrre nelle fabbriche Fiat italiane per salvaguardarne gli organici e remunerare decentemente il capitale; b) quali modelli vanno pertanto messi in linea, e come; c) se le mani che reggeranno la Fiat siano adatte, alla vigilia della divisione in due del gruppo; d) che cosa può fare il governo per la ricerca e lo sviluppo, senza dimenticare che la Fiat deve rispetto all’Italia che è pur sempre il suo primo mercato di sbocco.
E invece non prendiamo subito per buone le promesse d’investimento generiche, dai numeri rotondi perché pluriennali, così simili a quelle fatte a suo tempo per l’Alfa Romeo, e nemmeno sappiamo come si possa conciliare la Pomigliano testa di ponte verso il Mediterraneo con l’analoga finalità assegnata alla Serbia e alla Turchia e con la politica Fiat nel Maghreb. Quello che conta, pare, è la Fiom.
Massimo Mucchetti