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 2010  agosto 26 Giovedì calendario

Strand Mark

• Summerside (Canada) 11 aprile 1934. Poeta • «A vederlo sembra un attore. Altissimo, bello, “in tutto e per tutto simile a Clint Eastwood”, diceva Enzo Siciliano che, per primo in Italia, ha apprezzato l’opera di Mark Strand, uno dei più grandi poeti americani. Premio Pulitzer, “poeta laureato”, scrittore, critico d’arte (ha scritto un bellissimo libro su Edward Hopper), Strand ha pubblicato la prima raccolta di poesie nel 1964. In Italia è stato pubblicato da Donzelli e da Minimum Fax [...] Con l’Italia Strand ha un rapporto privilegiato. Ha studiato a Firenze e ogni anno passa un mese da noi, quando è in vacanza dalla Columbia University dove insegna. La poesia di Strand è lirica, intima, espressione dei sentimenti eterni dell’essere umano: l’amore, la morte, la felicità, il dolore, il tempo. A differenza di altri poeti contemporanei, attenti a far entrare l’attualità nella loro opera, Strand sembra ignorare completamente quel che accade nel suo paese e nel mondo. [...] “Quello che valeva per gli esseri umani duemila anni fa vale anche oggi. La poesia richiama l’universale nella soggettività”. Quel che conta è tutto quello che condividiamo come esseri umani: ecco “il miele dell’esistenza”, fatto anche di dolore. “Non possiamo farci nulla”, dice il poeta: “Ma la vera cura per il dolore è la sua celebrazione, anche se questo può sembrare paradossale”. Nella poesia “Dolore”, dalla raccolta “Chicken, Shadow, Moon and More”, si legge: “Il dolore è il confetto dell’anima / Il dolore lo si può comprare, ma di solito è gratis / La talpa e il pipistrello sono compagni di dolore”. Oltre al senso, quasi all’ossessione del tempo, quello che colpisce, nella poesia di Strand è l’ambiguità. “L’ambiguità ci porta a leggere e rileggere la poesia”, dice: “Le nostre esperienze sono piene di mistero. Noi ci avviciniamo al mistero e cerchiamo di capirlo, senza riuscirci. La poesia serve a spiegare che la nostra esperienza è strana, fragile”. Poi c’è l’ironia. Sottile, costante. “Io, il cane che chiamano Macchia, stavo per cantare”, scrive in “Cinque cani”. E ne “Il taccuino di Sargentville”: “È qualcosa che ha un senso o no / a svegliare l’uomo profondo / dal suo sonno superficiale?”. Secondo Damiano Abeni, il suo traduttore italiano, Strand è “il più kafkiano dei poeti americani”. "In effetti Kafka è lo scrittore che ha avuto più influenza su tutta la mia opera”, conferma Strand: “E tutto quello che cerco di fare sono delle astrazioni dove il tragico non è mai staccato dal comico”. [...]» (Rita Tripodi, “L’espresso” 3/8/2006).