BERNARDO VALLI, la Repubblica 26/8/2010, 26 agosto 2010
TRA LE BOMBE, SENZA LUCE NÉ ACQUA È LA GUERRA INFINITA DI BAGDAD
Le notizie arrivano a ondate. Asseel guida con il cellulare incollato all´orecchio e alterna le informazioni meteorologiche a quelle sugli attentati. La giornata è meno calda di ieri: quarantasei gradi. La settimana scorsa il termometro ha superato i cinquanta. Si respira meglio, dice Asseel. Per lei il leggero ribasso della temperatura è importante.
In molti quartieri a Bagdad ci sono quarantacinque minuti di corrente elettrica ogni cinque ore. Condizionatori e ventilatori vanno a singhiozzo. E spesso i rubinetti emettono rantoli e neanche una goccia d´acqua.
E i morti? Asseel mi dà un´occhiataccia. La mia curiosità la spazientisce. Forse la trova più macabra che professionale. Per lei i morti sono routine. Però mi accontenta: i morti sono stati più di cinquanta e i feriti quasi trecento. Questo è il bilancio stando alla radio. Tutti a Bagdad? No, non tutti. Ce ne sono stati un po´ dappertutto, da Bassora nel sud a Mosul nel nord. In almeno tredici centri. Borghi e città. Sono esplose quattordici auto, guidate da kamikaze, e un numero imprecisato di mine sulle strade, sulle piazze, nei mercati. Ma le statistiche variano di minuto in minuto.
Le guerre di solito non finiscono così.
Non mi facevo illusioni venendo in Iraq, ma una prima giornata tanto sanguinosa non me l´aspettavo. Né una reazione tanto spettacolare dei terroristi a neppure una settimana dall´annunciata partenza delle truppe combattenti americane sette anni dopo l´invasione. Partenza che segna la fine formale della guerra, quella americana, voluta da George W. Bush.
Accidenti, che fine! Asseel mi è venuta a prendere all´aeroporto. Anzi, non proprio all´aeroporto perché i comuni mortali devono fermarsi cinque sei chilometri prima, a un grande checkpoint, appena fuori dall´ampia zona di sicurezza nella quale scorrono le piste d´involo. I terroristi non usano più i razzi. Ma non si sa mai.
Asseel è sempre puntuale. Mi assiste da anni, ogni volta che vengo a Bagdad. Oggi è meno vivace del solito. Siamo in pieno Ramadan e lei digiuna. Il caldo, la sete, la fame e il terrorismo tutti insieme non aiutano ad essere di buon umore. Quando arriviamo nel centro della capitale, con il contributo della radio e delle notizie raccolte da Asseel con il cellulare, abbiamo un quadro della situazione abbastanza completo.
Tutto è cominciato poco dopo le otto, quando un´autobomba è esplosa in prossimità di una caserma della polizia, nel quartiere settentrionale di Qahira, uccidendo quindici persone e scardinando porte e finestre in un raggio di mezzo miglio. Pochi minuti dopo, nel quartiere centrale di Manthanna, c´è stata un´altra esplosione. Altri morti. E il micidiale fuoco d´artificio è continuato per due ore in altre città dell´Iraq: Falluja, Ramadi, Tikrit, Kirkuk, Bassora, Kerbala, Mossul.
I terroristi hanno dimostrato di poter lanciare un´offensiva puntuale, simultanea in quasi tutte le province. Attorno alle macerie, ai cadaveri, ai feriti, in alcuni quartieri di Bagdad si sono raccolte donne e uomini inferociti che non hanno risparmiato gli insulti a poliziotti e soldati. Gli insulti trasmessi dalla radio sono: «Vi paghiamo e non sapete difenderci»; «da quando Saddam non è più al potere conosciamo soltanto assassinii e saccheggi»; «non abbiamo abbastanza acqua, né elettricità, né sicurezza». Per disperdere la folla la polizia ha sparato per aria. E in quelle ore di panico e di rabbia sarebbero ricomparse in città pattuglie americane, su piccole autoblindo, accompagnate da qualche simbolico soldato iracheno. Non è un particolare insignificante: da un anno gli americani non intervenivano nei centri urbani. L´allarme deve essere stato serio nei comandi militari.
Nella mattina il traffico sembrava impazzito. Imprigionati nelle loro automobili gli abitanti di Bagdad temevano di essere investiti dall´esplosione di un kamikaze. È cominciata così una giornata di digiuno, di caldo e di paura. Negli ultimi mesi gli automobilisti ascoltavano soltanto musica. Basta notizie di sangue. Volevano liberare il cervello, dice Asseel. Nella mattina le notizie si sono imposte di nuovo. Adesso, nel primo pomeriggio, la metropoli è quasi deserta.
Bagdad è stanca, dice Asseel. Esausta. E non sa cosa pensare. Se avere paura perché gli americani dicono che non combatteranno più, e si limiteranno ad aiutare tecnicamente o come consiglieri gli iracheni; o se devono sperare in un miglioramento della situazione, visto che gli americani non hanno portato «né l´elettricità, ne l´acqua, né la sicurezza».
L´ondata di attentati, lanciati in tanti angoli del Paese, in un preciso spazio di tempo, è stato un messaggio pesante dei terroristi. Prima ancora che gli americani abbiano cessato di intervenire direttamente nel conflitto, loro sono in grado di organizzare offensive tanto ampie. Non è che il preludio di quel che accadrà dopo il 31 agosto, quando soldati e poliziotti iracheni saranno, almeno ufficialmente, soli. Ed è comunque la smentita a quel che vanno ripetendo le autorità americane e irachene: e cioè che i terroristi sono ridotti a poche centinaia, e che i loro capi sono stati catturati.
Ma può anche essere stata una dimostrazione plateale che non corrisponde alla forza reale dei terroristi. In occasione delle elezioni, gli attentati a scopo intimidatorio si sono moltiplicati per dissuadere gli iracheni dall´andare alle urne. Ma la gente ha votato lo stesso: è quel che è accaduto nel marzo scorso. E l´insurrezione armata ha poi continuato a manifestarsi con puntualità, come una macabra routine, senza emergere tuttavia in quanto organizzazione capace di proporre un´alternativa politica.
È del resto difficile darle un´identità precisa. Appare una forza sotterranea, manovrata da più mani, anche straniere, in grado di alimentare l´instabilità dell´Iraq che stenta a dotarsi di uno Stato, e resta un rissoso mosaico di gruppi etnici e tribali. Gli americani hanno demolito il detestabile regime di Saddam ma non hanno creato uno Stato democratico in grado di funzionare. Hanno promosso elezioni, nelle quali ognuno ha votato per il proprio gruppo etnico. Sono stati in realtà dei censimenti, cui molti iracheni hanno partecipato con slancio, in buona fede, senza riuscire a porre fine al terrore. I partiti eletti in Parlamento non riescono neppure a formare un governo. Sei mesi dopo le elezioni a capo dell´esecutivo c´è sempre lo sciita Nuri Kamal al-Maliki, il primo ministro decaduto, che ha meno seggi dell´avversario Ayad Allawi, uno sciita laico che ha un importante seguito sunnita. È quindi senza un vero governo che l´Iraq muove i primi passi da solo. O quasi.
Ma chi alimenta il terrore? «Gli stranieri», dice Asseel senza troppa convinzione, facendo seguire alle parole un gesto vago con la mano. Al Qaeda, aggiunge. Sunniti integralisti o non rassegnati al potere della maggioranza sciita, che controlla in larga parte esercito e polizia. Ma l´influenza del vicino Iran sui gruppi sciiti dissidenti è forte. Teheran può agire impunemente infliggendo colpi imparabili agli Stati Uniti. L´Iraq è un mosaico di rivalità etniche e tribali in cui molti giochi sono consentiti. E in cui molti bluff sono possibili.
Qualcosa del genere è l´annunciata fine della guerra americana. In qualche settimana gli Stati Uniti hanno realizzato un´imponente operazione logistica. Hanno ritirato dall´Iraq insieme alle unità combattenti migliaia di mezzi blindati, di cannoni, di droni, di elicotteri, di apparecchi di sorveglianza via satellite, e di altri materiali tecnici sofisticati, in dotazione al più grande esercito della storia. E hanno trasferito il tutto nel Kuwait, da dove sarà smistato: in Afghanistan, oppure rispedito in patria o accantonato nell´emirato limitrofo all´Iraq, da dove basta fare un passo per ritornare, in caso di estrema necessità, nella valle tra il Tigri e l´Eufrate. Qui restano comunque cinquantamila uomini, tra i quali è arduo distinguere i «combattenti» da quelli che non lo sono. La cinquantina di basi destinate a rimanere (sulle cinquecento e più costruite nei sette anni di conflitto) saranno ovviamente difese da reparti adeguati al compito. Quindi reparti combattenti.
Dal primo settembre, è vero, l´operazione Iraq, ribattezzata «Nuova alba», destinata a durare fino al dicembre 2011, non sarà più di competenza del Pentagono ma del dipartimento di Stato. Dal ministero della Difesa tutto o quasi tutto passa nelle mani del ministero degli Esteri.
Dai militari ai civili. La guerra si privatizza. Tanto è vero che il generale Raymond Oderno, comandante in capo della spedizione, se ne andrà da Bagdad tra cinque giorni. E l´ambasciata Usa si prepara ad aprire consolati o rappresentanze varie a Bassora, a Mossul, a Kirkuk, e in altri centri importanti, dove saranno all´opera 2.400 diplomatici o agenti assimilati. Ai quali si aggiungeranno settemila civili americani forniti da imprese private specializzate nella sicurezza, che il dipartimento di Stato pagherà e dirigerà, insieme ai tremila già sul posto. È un po´ come se la guerra continuasse in abiti civili. Ma la transizione è straricca di incognite.