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 2010  agosto 26 Giovedì calendario

ANNA WINTOUR E LE ALTRE LE CRUDELIE DELLA MODA

«Le persone dicono cose degradanti su di noi perché si sentono escluse. Perché nella moda c´è qualcosa che fa innervosire. Ma portare un bel vestito di Carolina Herrera invece di una cosa qualsiasi non vuol dire essere stupidi». Grazioso viso senza tempo di sessantenne in grado, col suo imperio, di terrorizzare anche gli anni che passano.
Celebre taglio di capelli con frangetta che neppure un tornado riuscirebbe a scomporre, voce armoniosa da gran signora british, persino sorriso timido e solo gli occhi un po´ stanchi: Anna Wintour, da ventidue anni impervia direttrice di Vogue America, venerata, detestata e soprattutto temuta, dice cose esagerate, in quanto milioni di persone ignorano il suo mondo, autoreferenziale e superbo talvolta sino all´allucinazione.
Frettolosamente definita "la donna più importante d´America" (e allora Hillary Clinton, e Nancy Pelosi e Michelle Obama e Ophrah Winfrey? Mah!), di solito appare, dietro immensi occhialoni neri e un po´ di cincillà da qualche parte, e tace, impenetrabile, alimentando l´inquietudine, i complessi di inferiorità, le genuflessioni di chi la circonda. Quindi che abbia aperto bocca, quale oracolo fashion, può considerarsi una vittoria del regista R. J. Cutler, che è pure riuscito a farle togliere gli occhialoni e a carpire quindi il mistero dello sguardo miope e inaspettatamente dolce: ed è con quel discorsetto che trancia il mondo in due, quelli che contano (perché si vestono Herrera o chissà chi) e quelli che non contano (perchè non si vestono Herrera o chissà chi) che comincia September Issue, il documentario dedicato alla signora, dopo un romanzo (Il diavolo veste Prada), il film che ne è stato tratto con gran successo, e una ricca biografia, "Front Row", Prima Fila, l´agognato e inaccessibile regno alle sfilate, riservato alle massime Crudelie della moda di cui Anna Wintour è la superregina (nel film la definiscono anche papa), quasi sempre attesa invano e col cuore inutilmente in gola dagli stilisti e dai gelidi nuovi padroni dei marchi in affanno, i fondi finanziari.
Il documentario esce finalmente in Italia, in un cofanetto Feltrinelli, che contiene il dvd e un volume di 120 pagine con preziosi testi d´autore. Diciamo finalmente perché il film è stato distribuito nei cinema americani un anno fa, dopo aver vinto il gran premio della giuria per la fotografia al Sundance Film Festival: ed è stato girato nel 2007, quando lo spensierato e opulento continente-moda era in pieno scricchiolio, vittima come tutti della crisi. Si sussurrò che in questa grave situazione ci avrebbe rimesso pure la mitica Wintour, che avrebbe potuto essere sostituita da una più giovane e innovativa rivale, con meno pretese di limousine e abiti alta moda sulla nota spese. Diabolica, la signora solitamente molto schiva anche per mancanza di argomenti al di fuori della sua rivista, accettò di sottomettersi all´incognita Cutler: consentendogli di girare otto mesi nella redazione di Vogue e attorno a lei, nel tempo cruciale in cui numerosi suoi schiavi ammutoliti dalla stanchezza e scavati dalla nevrosi, preparano il famoso ‘september issue´, il numero più glorioso dell´anno, in cui per apparire con la propria pubblicità, le aziende di abbigliamento si accoltellano (o accoltellavano?) rischiando la bancarotta.
Quel numero del 2007 fu un record, un apoteosi, una sfida dell´industria globale della moda, dell´imperio del lusso, del potere dell´eleganza, della forza della frivolezza, contro lo spettro funebre della recessione anche vestimentaria: 840 pagine, di cui 727 di pubblicità, (buona parte italiana), in copertina la contraffazione di un´attrice giovane e bella, la candida e bionda Sienna Miller, fotografata a Roma da Mario Testino con Riccardo Scamarcio, vestita italiano (Alberta Ferretti) tutta ritoccata come son sempre le foto che contribuiscono a far sentire orribili tutti gli altri umani, se non si adeguano a quel rossetto o a quelle piume. Di quel numero furono venduti 9 milioni di copie, oggi su e-bay costa più di cento euro.
Il September issue documentario, girato con grande maestria, ammirazione ed ironia verso il mondo chiuso, asfittico e geniale della massima rivista di moda, racconta una vera storia, a volte drammatica, a volte divertente, a volte irritante, sempre interessante. C´è il continuo scontro elegante tra la Wintour e quella che risulta essere la vera star del film, Grace Coddington, art director, 70 anni, di origine gallese, lunghi capelli rossi, lungo corpo di ex bellissima modella anni ‘60 dentro una tunica nera, viso scavato dalla passione per il suo mestiere. Lei crea fiabeschi servizi, Wintour sentenzia glaciale, «no black», oppure «non è texture», o «troppo perfetto», e giù la mannaia, quella foto, costosissima opera di divi assoluti dell´obbiettivo, viene buttata: non sempre, perché se Coddington ne è innamorata, osa disubbidire, e la rimette nel servizio. Si sente la quotidiana tensione, l´insicurezza, la paura di tutte quelle ragazze intristite, sfiancate da un superlavoro durissimo e costrette alla magrezza: mai uno sguardo di Wintour le raggiunge, solo secche parole, quasi sempre di rifiuto, mai di apprezzamento. Quando una tremando sussurra a voce bassa, «Vuole vederci adesso», è come se fosse stata enunciata una sentenza di morte. La macchina da presa si aggira lungo i corridoi della redazione tra paradisi di scarpe e abiti firmati, si sposta da New York a Parigi, dall´atelier della star nascente del momento, il tailandese Thakoon (già tramontato) a quello dell´italiano Stefano Pilati che crea per il marchio Yves Saint Laurent, dall´agitazione dissennata delle sfilate ai set fantasiosi creati dalla geniale Coddington.
Il documentario riesce in un compito ritenuto impossibile: rende umana la signora Wintour. Ecco il ricordo del padre giornalista, ex direttore del quotidiano inglese Evening Standard, che le aveva predetto la carriera e che aveva pubblicamente sentenziato: «l´associazione giornalisti ha la spina dorsale di una medusa». Eccola in casa con la figlia Bee che la snobba detestando la moda, eccola raccolta in sé, rimpicciolita nella enorme limousine, dove è sempre sola, in silenzio evanescente, eccola infastidita alle sfilate da domande scemissime e a perder tempo da stilisti impreparati e a bere solitaria un cappuccino (solo la schiuma, dice la leggenda) in un qualsiasi caffè Starbuck, muovendosi in un tripudio perfetto di golfetti, gonne, abiti stampati, le cui griffe, esaltate dal suo corpo sottile e armonioso, frutto di una crudele alimentazione da trappista, aumentano i fatturati. Soprattutto lavoratrice indefessa: poche parole, mai la voce alta, nessun dialogo, nessuna discussione, decisionismo irremovibile, non un solo minuto perso in chiacchiere, nessuna democrazia di rapporti, una proficua tirannia. Il sospetto è che se fosse un uomo, il suo gelo operoso susciterebbe ammirazione. Intanto è uscito il "September Issue 2010" di Vogue America, e si capisce che da quello del film sono passati tre anni e tre numeri: meno pagine, 726, meno pubblicità, 542 pagine, certe grandi firme italiane scomparse, più inserzionisti americani soprattutto di abbigliamento popolare. In copertina ancora una bellissima attrice, però di colore, come non accadeva alla rivista dal 1989 (c´era Naomi Campbell, allora la bellezza più celebre della moda). Halle Berry, vestita patriotticamente americano (Ralph Lauren), ma ancora fotografata da Mario Testino. Editoriale di Anna Wintour sulla persistente recessione (che ha assottigliato la rivista) e sulla filantropia cui la rivista ma anche la Berry e la Wintour, si dedicano.