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 2010  agosto 23 Lunedì calendario

Dopo 55 anni ho scoperto che il mio paese è il Paradiso - Non ci posso credere ma davvero sei di Bisceglie? Non pensavo, parlando con una giornalista televisiva tedesca, che conoscesse il mio paese

Dopo 55 anni ho scoperto che il mio paese è il Paradiso - Non ci posso credere ma davvero sei di Bisceglie? Non pensavo, parlando con una giornalista televisiva tedesca, che conoscesse il mio paese. Tutto cominciò quando mi chiese di dove fossi. Risposi ge­nericamente «del sud d’Italia, come l’aspetto fisico può con­fermare ». Pensavo che a lei ba­stasse. Mi chiese precisamen­te dove, e quando le dissi in Pu­glia, mi incalzò con meticolosi­tà tedesca per sapere l’esatta località. Convinto di dirle un nome per lei insignificante, ri­sposi: Bisceglie. E lei esclamò meravigliata: Oh, Bisceglie, ma davvero sei di Bisceglie? Confermai pensando che no­nostante la sua biondità aves­se magari qualche parente emigrato, perché ho trovato bi­scegliesi anche nel deserto. E invece no, lei considerava Bi­sceglie, quasi come me, l’epi­centro del Mediterraneo. E mi spiegò perché. Era stata invia­ta dalla sua tv a Bisceglie per­ché era accaduta una cosa fan­tastica: in un monastero, tre suore di clausura, ultime su­perstiti in convento, si erano menate di santa ragione ed erano finite al pronto soccor­so. E la tv tedesca mandò in on­da il suo servizio mistico-ma­nesco. La storia è vera e risale a tre estati fa. Con un risvolto grotte­sco che mi raccontò un amico quel giorno di servizio in guar­dia medica. Nello stesso gior­no della rissa mistica erano fi­niti in ospedale tre rapinatori feriti in un conflitto a fuoco. Quando l’Arcivescovo di Tra­ni chiese notizia in ospedale delle condizioni di salute del­le tre monache, al centralino scambiarono eminenza con eccellenza e pensarono che fosse il prefetto o un’autorità di polizia a chiedere dei tre malviventi; così in guardia me­dica risposero che per le ferite d’arma da fuoco ci sarebbe vo­luto il ricovero. Ma come, ri­spose atterrito il vescovo, le suore avevano le pistole? Un biscegliese andò a com­prare le sigarette. Spiccavano alle spalle del tabaccaio le mi­nacciose scritte sui pericoli di morte che corre chi fuma. Il ta­baccaio afferrò un pacchetto e lo fece scivolare sul bancone. C’era scritto «il fumo rende im­potenti ». Il mio compaesano guardò la dicitura e ritrasse la mano protesa dicendo: «No, damm’ cherr che accìdon» (No, dammi quelle che uccido­no). Estremo gallismo sudi­sta: meglio morti che impoten­ti. A proposito di Fini che un gruppo di bagnanti ad Ansedo­nia voleva affogare. Nella no­stra infanzia primitiva in riva al mare, c’era un’usanza bar­bara esercitata in acqua, che andava sotto il nome di onza . Il termine non c’entra con la moneta antica o con la bestia dantesca, la terribile Lonza, ma evoca per assonanza l’on­da. L’onza è un supplizio mari­no scaturito da un’euforia go­liardica che spesso sconfina nella vastasaggine, a cui era­no sottoposte le matricole del mare, gli imbranati e gli insu­bordinati, bambini inclusi. A volte era anche un rudimenta­le­approccio di corteggiamen­to, simile a quello di alcuni ani­mali che vogliono conquista­re la femmina assoggettando­la. É un rito d’iniziazione al ma­re che simula l’affogamento: il martire era schiacciato con una mano imposta sulla sua te­­sta, come in un battesimo for­zato e costretto dal feroce pa­drino ad andare sott’acqua, riemergere e nuovamente far­si sommergere. « Onza su on­za , nessuno più ti salvera» can­tavamo da ragazzi, parafrasan­do una canzone di Paolo Con­te cantata pure da Bruno Lau­zi. Di solito l’ onza si infliggeva alle spalle della vittima, come la simulazione di un’egemo­nia in forma di sodomia o di uno jus primae maris , equiva­lente marino dello jus primae noctis . Non mancava pure la violenza di gruppo, una spe­cie di squadrismo marino di cui si aveva sentore quando ve­de­vi tre o quattro amici o cono­scenti avvicinarsi minacciosi verso di te: uno ti teneva le spalle e un altro ti buttava sot­to comprimendo la testa. L’unica salvezza era sfilarsi sott’acqua, sgusciare e riaffio­rare più in là, guadagnando il largo o la riva. Perchè l’ onza , nel suo rituale più efferato, era ripetitiva fino all’estenuazio­ne della vittima sacrificale. Di­ventava minaccia di morte per i bagnanti venuti dall’en­troterra che da noi erano defi­niti quaratini, andresani e ru­vitali, distorsione dialettale e livemenente spregiativa, de­gli abitanti di Corato, Andria e Ruvo. Approfittando della lo­ro, almeno proverbiale, scar­sa dimestichezza col mare, ve­nivano sommersi per il gusto sadico di generare panico e far­li bere. L’ onza metteva in peri­colo la loro vita e solo la pietà dell’aguzzino alla fine li face­va riprendere fiato e riconqui­stare il rassicurante «qui si toc­ca » sotto i piedi. Allegra e fero­ce risale l’onza dei ricordi. Ho scoperto che al mio pae­se nasce, cresce e si gusta un frutto che non si trova da nes­suna parte, e nessuno cono­sce, neanche nei paesi vicini. Ogni volta che lo cito tutti ca­dono dalle nuvole, e quando lo descrivo, pensando che ab­bia altrove solo un nome diver­so, restano meravigliati per­ché lo ignorano. Da noi si chia­ma cibo, o la sua dicitura este­sa è «Cibo del paradiso». Il frut­to che gli somiglia vagamente è un’albicocca gigante delle di­mensioni di una pesca, ma è di colore e di sapore diverso da ambedue. È un frutto carno­so e peccaminoso, forse era davvero il frutto proibito che quella porca d’Eva offrì al suo partner, l’unico uomo che ave­va la certezza matematica di non essere un cornuto.