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 2010  agosto 23 Lunedì calendario

Se l’ex brigatista fa lamorale a Cossiga morto - Abituàti a ex terroristi che colla­borano con i giornali, intervengo­no in tv, discettano sui mali del Paese che insanguinarono, non meraviglia che l’ex Br Adriana Fa­randa dica la sua in morte di France­sco Cossiga

Se l’ex brigatista fa lamorale a Cossiga morto - Abituàti a ex terroristi che colla­borano con i giornali, intervengo­no in tv, discettano sui mali del Paese che insanguinarono, non meraviglia che l’ex Br Adriana Fa­randa dica la sua in morte di France­sco Cossiga. È pun­t­ualmente avvenu­to sul Fatto quoti­diano di ieri che ha pubblicato una specie di «cocco­drillo »dell’ex terrorista con intro­duzione di Luca Telese, firma del giornale di Padellaro & Trava­glio. Faranda è tra i sequestratori di Aldo Moro. Era ella colonna romana che uccise i cin­que della scorta e rapì il politico dc il 15 marzo 1978. Fu lei ad acquistare le finte uniformi da poliziotti che i brigatisti in­dossarono per dare l’alt alle auto, com­piere con tranquillità la carneficina e prendere l’ostaggio. La Faranda fu anche la postina dei messaggi che dettavano al­lo Stato le condizioni per liberare il pri­gioniero. Moro fu ucciso il 9 maggio.L’an­no dopo, la Br fu arrestata. Si dissociò, denunciò dei complici ed ebbe notevoli sgravi di pena. In udienza, sostenne di essere stata contraria all’assassinio e di avere caldeggiato la liberazione del se­questrato. Quindici anni dopo, nel 1994, fu rilasciata. Cossiga, all’epoca del rapimento, era il ministro dell’Interno. Fece il possibile per scovare il nascondiglio di Moro ma rifiutò la trattativa con i terroristi. Era la posizione della stragrande maggioranza degli italiani e del Palazzo, Dc e comuni­sti in testa. I soli disposti scendere a patti furono i socialisti di Bettino Craxi e i radi­cali di Marco Pannella. Ucciso Moro, il ministro fu preda di sensi di colpa, prese atto del proprio fallimento e si dimise. Questa è la vicenda che intreccia i destini di Faranda e Cossiga. Con due ruoli oppo­sti. Lei in quello di assassina, lui in quello di sfortunato responsabile dell’indagi­ne. Non hanno alcunché in comune. Fu il ca­so a farli incrociare. Poi le strade si sepa­rarono. Faranda in galera, Cossiga al Qui­rinale. Scarcerata la terrorista, si sono in­contrati di persona due sole volte. Anche qui, occasionalmente. L’ex Br, che era di­ventata aiuto di un fotoreporter con cui conviveva, partecipò - con notevole fac­cia tosta - a un servizio fotografico sul po­litico. Cossiga la riconobbe. «Lei è Adria­na Faranda!», disse stupito. «Sapeva tut­to di me- raccontò lei in un’intervista del 2001 - . Fu cortese e signorile. Mi disse che aveva desiderio di parlare con me di alcune cose. Ma non è più successo». In­vece, si videro di nuovo in tv anni dopo. Fu su La7 nella trasmissione Tetris con­dotta da Telese, il giornalista del Fatto che ieri ha introdotto il simil coccodrillo. Questo spiega come, probabilmente, na­sce l’articolo. Non spiega invece - pres­sioni del giornale a parte - cosa abbia spinto l’ex terrorista, 60 anni in questi giorni, a ricordare chi le dette la caccia. Non aveva nulla da rivelare. Né testimo­nianze particolari su Cossiga, né risvolti ignoti. L’articolo infatti non contiene niente che riguardi lo scomparso. C’è in­vece molto della trita psicologia autogiu­stificatoria che tutti gli ex terroristi mani­festano ogni volta che aprono bocca o prendono la penna. Il pezzo - va detto ­non è irrispettoso né vendicativo. È fasul­lo. Sulle orme di Plutarco, Faranda traccia un parallelo tra sé e il defunto. Esageran­do il rapporto che esisteva tra loro - inesi­stente, come abbiamo visto - , Faranda af­ferma che lui, incuriosito, cercava in lei «l’ex combattente che aveva impugnato le armi per abbattere lo Stato per il quale (Cossiga, ndr ) aveva sacrificato tutto» e lei andava «in cerca della persona che si celava dietro il fumo dei lacrimogeni e della intransigente linea di fermezza». E con questo, Faranda già mette se stessa su un piano di parità con Cossiga. Non più, come penseremmo tutti, due indivi­dui agli antipodi: l’assassina da un lato e chi vuole assicurarla alla giustizia dall’al­tro. No: due parigrado. Da una parte, lo scherano della ragion di Stato. Dall’al­tro, la combattente. Anzi, un’idealista «forte soltanto dei miei poliedrici dub­bi... portatrice di un manicheismo un po’ demodé agganciato alle tradizionali op­posizioni buono-cattivo, giusto e ingiu­sto ». E chi si trova di fronte la creatura? «Un uomo d’ordine e delle istituzioni, de­ciso a difenderle a qualunque prezzo... fervido estimatore delle forze armate, for­te delle sue certezze». Insomma, un guer­rafondaio, un tizio machiavellico, pron­to come Trotzkij - la citazione è della si­gnora- a calpestare tutte le norme morali pur di fare prevalere l’Autorità. «Cossiga incarnava il nemico perfetto, la repressio­ne militare, la brutalità del potere». «Nel­le fauci della guerra» che i tipi come il defunto aizzava «caddero quei ragazzi che nessuno comprese fino in fondo e che ponevano questioni vitali come liber­tà, rivoluzione sessuale, ecc. ». Dunque, da un lato bravi figli che volevano il bene dell’umanità, dall’altro la sanguinaria re­pressione kossighiana che, incapace di dialogo, li costrinse a farsi terroristi. Per­ciò, non solo pari - lei e i suoi amici assas­sini - ma migliori degli ottusi persecuto­ri. Dopo la sparata, l’autrice si calma. E but­ta lì: «Vorrei che venissero portate alla lu­ce le verità ancora coperte da un segreto di Stato senza alcun senso ormai». Non spiega a quale segreto e a quali verità si riferisca: piazza Fontana, strage di Bolo­gna, delitto Moro? Vai a saperlo. Ma tutto fa brodo per confondere e tirarsi fuori. Poi, plutarcheggiando, torna a mescola­re la sua con la vita di Cossiga. «Siamo stati figli dei nostri tempi, io degli anni Sessanta, lui della guerra fredda, ciascu­no con i suoi... errori ed orrori». Insom­ma, pari e patta tra loro due. Lei terrori­sta e complice di omicidi plurimi, lui mi­nistro dell’Interno che invece di capirla e stenderle la mano, l’ha sbattuta per 15 anni in gattabuia. Opposti estremismi. L’articolosi conclude con una nota di pie­tà - «mi ha addolorato la sua morte» ­, una concessione - «inchiodare Cossiga a simbolo del male è ripercorrere la stessa logica che ci ha portati nel baratro» - e l’affermazione della propria superiorità morale: «Io sono riuscita a saltare dal tre­no in corsa, lui era ancora insediato sul suo locomotore». Il che - fuori metafora ferroviaria - equivale a: io mi sono penti­ta, lui è rimasto nell’errore. E con questo totale ribaltamento della realtà - Br, vitti­me; Stato, carnefice - Cossiga è servito. Questo è quello che capita quando si dà un pulpito a chi dovrebbe invece vivere nel fondo di una cripta.