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 2010  agosto 26 Giovedì calendario

La storia del crociato che divenne un balcone - Per gran parte dell’800 Jean de Soisy ha fatto da pavimento a un balcone, nel cortile d’una casa vercellese

La storia del crociato che divenne un balcone - Per gran parte dell’800 Jean de Soisy ha fatto da pavimento a un balcone, nel cortile d’una casa vercellese. Come ha ipotizzato Luca Brusotto del Museo Leone di Vercelli, il cavaliere crociato doveva essere sepolto in una chiesa dei dintorni, oggi non più esistente. In età napoleonica la città crebbe, diverse chiese vennero demolite, i cimiteri smantellati e trasferiti nei sobborghi in omaggio ai nuovi criteri igienici che ispirarono i Sepolcri del Foscolo; e qualcuno si accorse che quella pietra consunta dai secoli era proprio della misura giusta per i suoi lavori di ristrutturazione. Così l’antica lastra tombale fu calpestata da generazioni di bambini, sorresse vasi di fiori e stendini per la biancheria, finché le nuove mode culturali non arrivarono anche a Vercelli e i collezionisti cominciarono a curiosare nei cortili. Un secolo fa Jean de Soisy entrò a far parte della collezione di antichità del notaio Camillo Leone, il cui lascito ha dato vita a uno straordinario museo, troppo poco conosciuto rispetto ai tesori che contiene. Ripulito dalle muffe e collocato su un basso piedistallo, il cavaliere fissa a occhi spalancati il visitatore che gli si para davanti. È vestito, diremmo noi, in borghese, coll’abito lungo, le maniche svasate, i capelli accuratamente pettinati, nel taglio che si usava nel tardo ’200; solo la spada e lo scudo che ha accanto testimoniano il suo mestiere e il rango. La scritta che corre tutt’intorno ci dice chi era. Tradotta dal latino suona così: «Il 13 agosto morì il nobile cavaliere messer Jean de Soisy, della diocesi di Parigi». Jean era un nobile dell’Ile-de-France, terra di fedeli vassalli del re in un’epoca in cui gran parte di quella che oggi è la Francia - Normandia, Borgogna, Bretagna, Aquitania - obbediva ad altri principi. Capitò a Vercelli tornando da Roma, dove il re Filippo III l’Ardito lo aveva mandato nel 1283 per testimoniare nel processo di canonizzazione di suo padre, Luigi IX il Santo. Vercelli era allora una tappa importante della via Francigena, la strada percorsa dai pellegrini che andavano a Roma, ma anche da delegazioni di ambasciatori e comitive di uomini d’arme, ora che l’alleanza tra il Papato e la Casa di Francia era diventata l’asse della politica europea, e che Carlo d’Angiò, fratello minore di San Luigi, aveva conquistato con la benedizione papale il regno di Sicilia, strappandolo agli eredi di Federico II, Stupor Mundi. Al ritorno verso casa Jean de Soisy si sentì male e morì, come tanti, a quei tempi, morivano in viaggio, stroncati dagli strapazzi. Aveva almeno cinquant’anni, l’età a cui di solito si moriva nel Medioevo, e certamente era più vecchio di quanto non appaia sulla lapide, che lo rappresenta con i lineamenti stilizzati d’un giovane biondo. Quest’uomo che venne a morire a Vercelli era scampato a una crociata, e forse a due. Se il re Filippo lo aveva mandato a Roma, è perché era appartenuto alla cerchia dei vassalli più fedeli di Luigi IX, e non è comodo servire un santo. Luigi partì in crociata per la prima volta nel 1248, a 34 anni; i suoi strateghi gli avevano consigliato di sbarcare in Egitto, per colpire quella che allora era la potenza più dinamica del mondo musulmano, e arrivare a Gerusalemme da una direzione inattesa. La flotta di galere partì da Aigues-Mortes, il porto che il re aveva fatto costruire appositamente per la crociata e che ancor oggi si specchia nel Mediterraneo con la sua cerchia di mura turrite, e approdò alle spiagge di Damietta. Il re saltò nell’acqua bassa con lo scudo al braccio e in testa un elmo d’oro, e quando vide un gruppetto di turchi che sorvegliavano lo sbarco tenendosi a prudente distanza voleva precipitarsi da solo contro di loro; tra i vassalli che dovettero trattenerlo a forza c’era forse anche Jean. Le cose andarono male molto in fretta. La dissenteria faceva strage tra i crociati, che non riuscivano a uscire dalla testa di ponte. Il fratello del re, Roberto d’Artois, si fece ammazzare attaccando sconsideratamente il nemico, dopo aver litigato coi Templari su chi doveva avere l’onore di cavalcare all’avanguardia. L’altro fratello, Carlo d’Angiò, passava il tempo giocando a dadi, di nascosto dal re che quando lo sorprese gli buttò in mare dadi e quattrini. I pellegrini cristiani che capitavano al campo chiedevano di vedere il re santo, la cui fama era già diffusa nel mondo; uno dei vassalli di Luigi venne a dirglielo ridacchiando, e aggiunse che lui però non aveva ancora voglia di baciare le sue ossa, come a dire: cercate di non farvi ammazzare, per ora. Luigi si mise a ridere anche lui e quando la situazione precipitò si arrese al sultano; qualcuno tra i crociati parlava di martirio, ma la maggioranza decise che erano dei matti e che era molto meglio arrendersi. Il sultano, del resto, trattò cortesemente il re e i nobili, anche se molti dei poveracci vennero scannati; e dopo il pagamento d’un riscatto li lasciò andare. Così Jean de Soisy, se davvero era lì, tornò a casa sano e salvo. Quasi tutti avevano imparato la lezione, e quando vent’anni dopo re Luigi annunciò l’intenzione di partire di nuovo per la crociata, la maggior parte dei suoi vassalli si mise le mani nei capelli. Radunare la spedizione fu più difficile, stavolta; ma Jean de Soisy, e questo lo sappiamo con certezza, partì al fianco del suo re. Lo sbarco avvenne a Tunisi: Carlo d’Angiò, che nel frattempo era diventato re di Sicilia, aveva grandi progetti di espansione mediterranea, e suo fratello gli dava troppo retta. In Tunisia il copione si ripeté tragicamente: il clima ammazzava la gente, e questa volta anche il re, che aveva passato i cinquant’anni, si ammalò e morì. I superstiti tornarono a casa convinti d’aver veduto la morte d’un santo, e forse anche segretamente sollevati perché d’ora in poi non avrebbero più dovuto seguirlo; di San Luigi restavano davvero solo le reliquie da baciare. Jean de Soisy tornò al suo castello vicino a Parigi, mentre la diplomazia capetingia e quella pontificia negoziavano la canonizzazione del defunto; ci vollero dodici anni perché il processo si mettesse in moto, e la commissione d’inchiesta convocasse anche Jean. Il nobile signore salì a cavallo, andò a Parigi e poi a Roma, e a Vercelli capì che ora toccava a lui, e che presto avrebbe raggiunto il suo re, sempre che il giudizio gli fosse andato bene. Sulla lapide è rappresentato a mani giunte: prega, anche se fissa davanti a sé senza paura, come è obbligo d’un cavaliere. All’altezza delle spalle sono incise tre parole: pregate per me.