Stefania Culurgioni, Vanity n.34 1/9/2010, 1 settembre 2010
AMORE IN CARCERE
L’amore non si fa a comando. Ma quando hai sei ore di tempo ogni due mesi per vedere il tuo compagno, e finalmente ti ci ritrovi da sola nel silenzio di una minuscola baita a cinquanta metri dalla galera, il tempo diventa un imbuto. Risucchia le preoccupazioni e l’ansia della lontananza.
«La mia fidanzata l’ho conosciuta così», racconta Lorenz, albanese, 35 anni, di cui dieci trascorsi in carcere. Aveva aperto una ditta di cartongesso con il fratello, poi i debiti per il gioco, l’idea di fare soldi facili con il traffico di droga, la condanna e le sbarre. «La stronzata più grande che potevo fare. Esco tra sei mesi, ma me la faccio sotto. Fuori è cambiato tutto, io sono rimasto a dieci anni fa. Per fortuna ho una ragazza e andremo a vivere insieme. L’ho conosciuta mentre ero qui. Mi ricordavo di quando eravamo ragazzini in Albania, ho cominciato a telefonarle dal carcere, e visita dopo visita è nato l’amore. Anche grazie alla Silva, certo».
Il carcere è La Stampa di Lugano e la Silva è il nome della casetta costruita nel perimetro del carcere e sfruttata da anni per fare incontrare i detenuti con i propri cari. Può essere la moglie, la fidanzata, la convivente, l’amica, il figlio, la famiglia intera. Non ci sono videocamere, non ci sono agenti e nemmeno microfoni. Se fai il bravo, ogni due mesi per sei ore di fila ci puoi andare. C’è un letto matrimoniale in una stanza, un bagno, una cucina. La direzione fornisce anche i preservativi. Ci puoi fare l’amore o ci puoi fare un pranzo con i figli. Unica condizione: la buona condotta. E che non entrino prostitute.
«Il nostro codice penale parla chiaro», spiega Fabrizio Comandini, 50 anni, direttore dell’istituto, «all’articolo 75 dice che le condizioni di vita all’interno del penitenziario devono avvicinarsi il più possibile alle condizioni di vita fuori, e all’articolo 84 che il detenuto ha il diritto di ricevere visite e mantenere contatti all’esterno del penitenziario, e che deve essere agevolato il contatto con persone a lui vicine. In sostanza, la pena è una cosa che commina il giudice, ed è la restrizione di libertà. Non è nostro compito aumentarla opprimendo».
Chi è straniero e ha la «fortuna» di essere rinchiuso in Svizzera ci guadagna, sul versante degli affetti. Nel carcere di Lugano infatti la direzione prevede, oltre ai colloqui «Pollicino» che sono fatti con i bimbi dei detenuti, anche i colloqui «gastronomici»: chi vuole prenota una stanza dentro all’istituto e ci fa un pranzo con i suoi. I piatti li prepara il carcere, non ci sono sentinelle, stai due ore in tranquillità con amici o familiari. Poi ci sono le videoconferenze, per i carcerati stranieri che non riceveranno mai le visite dei parenti lontani. E la classica sala colloqui: tutti intorno ai tavoli con un agente che sorveglia. Infine, se sei dentro da almeno due anni, non benefici di congedi e hai avuto una buona condotta, puoi anche chiedere la Silva.
«Non ci sono reati che escludono l’utilizzo della casetta», spiega il direttore della Stampa, «noi consideriamo solo con chi fai il colloquio. È chiaro che se uno è dentro per stupro ben difficilmente gli consentiremo di farlo con una donna. Ed è chiaro che, se uno invita una prostituta, noi ce ne accorgiamo, perché non siamo scemi. Ma non succedono abusi. I detenuti sanno che, se sgarrano, la Silva rischia di essere chiusa per tutti. E nessuno sgarra. Averla a disposizione li rende tranquilli. Si comportano bene prima, perché sanno che devono avere una buona condotta, e si comportano bene dopo, perché incontrare in intimità i loro cari li rende più rilassati. E poi, il fatto che dentro alla Silva si faccia anche sesso lo sappiamo tutti, non è una cosa che viviamo con scandalo. Non siamo noi a giudicare se uno può o non può fare l’amore con la sua fidanzata».
L’istituto di Lugano ha 140 posti e ospita 139 detenuti. La direzione chiama questa situazione con il termine di «sovraffollamento»: «Capisco che rispetto a quello che accade in Italia fa un po’ sorridere», spiega Comandini, «ma per noi avere tutte le celle piene (le celle, tra l’altro, sono solo singole, ndr) è una cosa anomala, che ci preoccupa. Però cerchiamo di soddisfare tutte le richieste di colloquio dei presenti. Circa il 70 per cento è composto da stranieri, gli italiani sono 16. E noi investiamo tantissimo nella cura dell’affettività. Per un detenuto infatti potersi ritrovare con i figli, o con la moglie, è fondamentale. Loro sono il primo e spesso l’unico legame che ha con l’esterno e quindi, se si vuole cercare di reintegrare le persone nella società, oltre che tramite il lavoro, bisogna per forza passare dalla famiglia. Perché, se non passiamo dal canale dell’affettività, da dove passiamo? ».
IL GIARDINO DEGLI INCONTRI
In Italia non esiste una legge che, come quella svizzera, agevoli il contatto (anche e soprattutto fisico) del carcerato con le persone a lui più vicine. «Siamo rimasti fermi al 2000», spiega Franco Corleone, garante dei diritti dei detenuti a Firenze, «quando io, allora sottosegretario alla Giustizia, presentai nel nuovo Regolamento penitenziario l’ipotesi di introdurre all’interno delle carceri dei luoghi dell’affettività, dove i detenuti potessero trascorrere del tempo, mezza giornata o anche una giornata intera, per mangiare insieme, dormire, fare l’amore. Era una proposta prudente ma avanzata, sul modello della Silva di Lugano». Ma non se ne fece nulla: «Il Consiglio di Stato diede parere negativo, la proposta venne eliminata dal Regolamento».
Caso isolato nel panorama delle 206 carceri italiane è l’istituto penitenziario di Sollicciano, un quartiere alla periferia di Firenze, dove da quattro anni è in funzione il «Giardino degli incontri». «Un edificio e un giardino costruiti all’interno del complesso penitenziario dove i detenuti possono incontrare i familiari al di fuori delle solite aree riservate ai colloqui», continua Corleone, «e uno spazio di dialogo tra la città dei reclusi e quella dei liberi». Nel «Giardino degli incontri», progettato dall’architetto Giovanni Michelucci, infatti, si organizzano dibattiti, si fanno mostre e c’è anche un teatro. Ma anche in questa che rimane la realtà più all’avanguardia nel nostro Paese non si parla di sessualità: tutti gli spazi sono aperti e non sono previsti luoghi che possano garantire la privacy.
Dal 2000 il problema della sessualità in carcere è stato periodicamente affrontato a livello politico, senza mai giungere a una soluzione reale. Tra gli ultimi a sollevarlo, il sottosegretario alla Giustizia Maria Elisabetta Alberti Casellati: a suo parere, bisognerebbe predisporre stanze dove permettere ai detenuti di incontrarsi con il proprio partner «per un intrattenimento di carattere sessuale-affettivo». «Tra le obiezioni più comuni a questo genere di proposta c’è un ipotetico parere negativo da parte dei detenuti stessi, che si vedrebbero “costretti” ad avere rapporti. Ma è assurdo: chi ha mai parlato di obblighi?», dice Corleone.
Critiche anche dal Sindacato autonomo di polizia penitenziaria. «Garantire il sesso in carcere ai detenuti dovrebbe essere l’ultimo dei pensieri, vista la grave situazione penitenziaria», dice il segretario generale Donato Capece, riferendosi anche al sovraffollamento delle nostre prigioni: oltre 68 mila detenuti, metà dei quali in attesa di giudizio, per poco più di 44.500 posti, costretti spesso a vivere in cinque in una cella di 10 metri quadrati, con i letti a castello, i bagni senza porte e, a volte, senza finestre.
VINCE CHI GRIDA PIÙ FORTE
E così, di fatto, nelle carceri italiane i detenuti possono incontrare i familiari – figli, mogli, mariti – solo nelle sale colloqui, spesso affollatissime.
«Con 30, 40 persone tutte assieme sotto il controllo degli agenti di custodia», racconta Marco, in carcere a Padova, padre di una figlia, «quella mezz’ora scarsa che abbiamo a disposizione una volta alla settimana per stare con la famiglia diventa una sfida a chi grida più forte per farsi sentire e a chi spinge più forte per farsi avanti. In certi penitenziari le sale colloqui sono divise in due da un bancone di cemento, i familiari da una parte e i detenuti dall’altra. Fino a pochi anni fa, e in qualche posto è ancora così, sul bancone c’era un vetro divisorio alto anche un metro e mezzo: abbracciarsi era impossibile. Per fortuna non è così dappertutto: a volte, soprattutto al Nord, ci sono tavolini e sedie».
«Sono tre anni che vedo mia madre solo nella sala colloqui», racconta Andrea. «Ci teniamo mano nella mano, eppure entrambi sentiamo di non poter esprimere, liberamente, le nostre emozioni. Percepisco il suo disagio: ci sono domande che vorrebbe farmi, ma che non mi fa. Ci sono risposte che io vorrei darle, ma non riesco. Tutti e due sappiamo che dovranno trascorrere ancora molti anni prima di poterci riabbracciare».
Anche Giulia, 24 anni, per otto ha incontrato sua madre solo dietro le sbarre. «Ne avevo 16 quando sono andata a trovarla per la prima volta, un anno dopo il suo arresto. Siccome non ero maggiorenne ci vedevamo in giardino, poi siamo passate alla sala colloqui: parlavamo di tutto, della scuola, degli scout, degli amici, anche di mio padre. All’inizio mi vergognavo di lei, ora sono orgogliosa di come ne è uscita: il carcere le è servito. Oggi è fuori, gira per le scuole a raccontare la sua vicenda. Sono convinta che non farà altre cazzate». Paola, la mamma di Giulia, gestiva un bar con i genitori. Si era sposata presto, aveva avuto sua figlia presto, poi il marito era morto. Cominciarono i debiti, il bar venne ipotecato, la situazione sembrava senza via di uscita. «Non devi fare niente di particolare», le disse un giorno un amico, così Paola divenne un corriere della droga: le affidavano valigie cariche e lei le portava in giro. Quando la beccarono le diedero nove anni di prigione. «Mia zia è stata la prima a saperlo», riprende Giulia, «all’inizio non ci ha detto niente, si inventava delle scuse per giustificare l’assenza della mamma. Quando poi lo abbiamo saputo, siamo rimasti tutti scioccati. I miei nonni avevano molte aspettative su di lei: da giovane era brava a scuola, sportiva. Io ero molto arrabbiata: la mamma era l’unico genitore che mi era rimasto, quando è entrata in carcere non avevo più nemmeno lei».
Veronica è figlia di Giovanni, detenuto in provincia di Caserta per associazione mafiosa. «È dentro dal 1993: quando era a Lecce, potevamo vederlo una volta alla settimana. Aspettavamo con ansia il mercoledì, il giorno del colloquio. Ricordo le autostrade di notte, mio fratello piccolo che dormiva sul sedile posteriore, le mie nonne e mia madre in macchina. Ero troppo piccola per capire, ma sapevo che stavamo andando da papà ed ero felice. Oggi ho 26 anni e preferisco non ricordare tutte le umiliazioni che ho subito, entrando in carcere». Veronica ha un bambino di due anni, ne aspetta un altro, e per andare a trovare suo padre fa ancora lunghi viaggi. «Sono andata anche col pancione. Una fatica, ma sono contenta: mi ha vista incinta».
«Mio figlio più grande all’inizio mi disse: “Papà, io non ce la faccio a entrare lì dentro”», ricorda Franco, detenuto del carcere di Padova. «Se ci fossero modalità di colloquio diverse, magari ognuno di noi potrebbe ricucire lo strappo che si è creato con la famiglia. La vera carcerazione è la mancanza di relazioni intime con la moglie e con i figli». Di norma, i colloqui durano 6 ore al mese, le telefonate 10 minuti alla settimana, e non verso i cellulari. Quando finalmente arriva il momento dell’incontro, l’intimità è l’ultima cosa che ci si può aspettare.
«La maggior parte delle persone libere si scandalizza se si dice che, a chi ha sbagliato, non si può togliere quel minimo di contatto affettivo: non parlo solo di rapporti sessuali, ma anche di mangiare insieme», commenta Sandro, in carcere a Padova. «Io sono un detenuto, forse non posso permettermi di giudicare, ma i nostri cari sono l’unico punto di riferimento che abbiamo, l’unica possibilità di riprogettarci un futuro».
I RAPPORTI SI SGRETOLANO
Stefano ha 56 anni ed è uno dei 16 italiani incarcerati alla Stampa di Lugano, per rapina. Cominciò che era un ragazzino, in Basilicata, e si fece un bel giro in diverse carceri della penisola. Si sposò al Nord, mise su famiglia, poi sei anni fa gli proposero un colpo alle Poste di Ginevra. Lui non aveva debiti, aveva due figli trentenni con un buon lavoro, una moglie. Ma disse sì. «La parte più difficile è stato spiegare ai miei figli perché l’ho fatto. Mi hanno guardato e mi hanno chiesto: “Ma papà, perché ancora? Che bisogno avevi?”. Io non ho saputo che cosa dire. Forse è che se cresci in un certo modo diventa più facile scivolare».
Il giudice gli ha dato otto anni e mezzo. «La paura più grande di uno che sta dentro è che si sgretolino i rapporti familiari. E non avere contatti fisici peggiora le cose. In altre carceri della Svizzera ci sono delle semplici stanze, ma in una stanza con un tavolo è brutto farlo. Senza letto, senza doccia, su un tavolo molti detenuti si rifiutano, soprattutto gli italiani e gli albanesi che hanno paura di offendere la moglie. Invece nella Silva parli, cerchi di fare rilassare tua moglie, puoi stare anche lì solo abbracciato».