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 2010  agosto 25 Mercoledì calendario

IO E COSSIGA, NON SOLO LONTANI

Politico controverso, Francesco Cossiga. Come i miei sentimenti per lui. Non ho scoperto mai chi era l’uomo. La sua storia e il suo ruolo, che ricoprì fino alla fine, nei nostri incontri lo offuscarono sempre. E forse anch’io, la donna che aveva dismesso gli abiti rivoluzionari per l’anonimato di una vita normale, restai per lui nell’ignoto. In me, rispettava e cercava l’ex-combattente, che aveva impugnato le armi per abbattere quello Stato a cui lui aveva sacrificato tutto. Mentre io andavo in cerca della persona che si celava dietro il fumo dei lacrimogeni e dell’intransigente linea della fermezza. Non so dire esattamente cosa mi unisse a lui. Credo sia stata la percezione limpida del dolore che si portava dentro, così diverso e così simile al mio. Tutto il resto sembrava separarci. Lui, uomo d’ordine e delle istituzioni, deciso a difenderle a qualunque prezzo, profondamente conservatore al di là delle apparenze come si addice a un vero “gattosardo”, fervido estimatore delle forze armate, forte delle sue certezze. Dall’altra parte io, un tempo convinta della necessità della violenza rivoluzionaria, da scagliare contro quel sistema che tanto orgogliosamente lui sosteneva e difendeva, forte soltanto dei miei poliedrici dubbi. Eravamo stati su trincee contrapposte, che si appellavano a una diversità radicale. Eppure, mio malgrado, vedevo tratti comuni. Io portatrice di un manicheismo un po’ demodé, agganciato alle tradizionali opposizioni buono/cattivo, giusto ed ingiusto. Lui di un manicheismo ”funzionale”, obbediente/disobbediente, affidabile e sovversivo.
L’illusione
dell’etica
IN ENTRAMBI i casi, due pesi e due misure. Con Macchia-velli, Cossiga mi diceva che le doti etiche nella lotta politica sono pure illusioni. Il dovere di chi governa è vincere e mantenere lo Stato, castigare in modo esemplare. E per un contestatore, un rivoluzionario? “Le norme morali assolute sono del tutto inoperanti. Il giudizio moraleècondizionato,comeil giudizio politico, dalle necessità interne della lotta” scriveva Trotsky, sintetizzando un principio di quella stessa dottrina che lo avrebbe ucciso. Ragion di stato contro Ragione rivoluzionaria. Questo avvenne in quegli anni. E non soltanto nel caso del sequestro Moro, il cui prezzo terribile fu pagato con la moneta dell’angoscia. Era il clima di una stagione della storia, pervasa dall’ansia di rifondareetrasformaretutto,maanche da un desiderio malcelato di distruzione e di morte. La lotta, così intesa, non avrebbe potuto che figliare spietatezza, disumanizzazione progressiva, demonizzazione. Cossiga aveva incarnato il nemico perfetto , l’incomunicabilità, la repressione militare, la brutalità del potere. Cosa eravamo stati noi per lui? Cosa quei movimenti che agitavano la società? Forse soltanto una minaccia densa di corpi senza volto, privi di storia, identità irrilevanti. Nemicità assoluta. Chiusi i canali del dialogo, tutto si trasformava in guerra, seguendo le sue leggi di crudeltà, trascinando con sé anche arruolati inconsapevoli. Quante domande avrei voluto ancora fargli. Perché aveva dato quelle disposizioni di sapore pasoliniano: “Se vedete operai, giratevi dall’altra parte, ma se vedete studenti, massacrateli senza pietà.” Frutto del suo sentirsi “di sinistra, dalla parte dei lavoratori” o di una convergenza d’intenti col PCI, che chiedeva con forza il nostro annientamento? Forse entrambe le cose. Sta di fatto che nelle fauci della guerra caddero anche quei ragazzi che al tempo nessuno comprese fino in fondo, e che ponevano questioni vitali come libertà, rivoluzione sessuale, comunicazione, nomadismo, rete orizzontale, tutte in seguito riconvertite come funzione di sviluppo e di riassestamento.
L’ultima
beffa
COSSIGA se ne è andato con un’ultima beffa. Nessuna lettera, per la gente comune. Vorrei, come molti altri, che venissero portate alla luce le verità ancora coperte da un segreto di Stato senza alcun senso ormai. Ma credo anche che insistere oggi a inchiodare Francesco Cossiga a simbolo del male, sia ripercorrere la stessa logica che ci ha portati nel baratro. Siamo stati figli dei nostri tempi, io degli anni Sessanta, lui della guerra fredda, ciascuno con i suoi miti, le sue storture, i suoi errori ed orrori. Oggi, è un altro tempo. Dico senza imbarazzo che mi ha addolorata la sua morte, e che ho sempre provato rispetto per lui. Sia pure se le nostre strade, opposte e parallele, mi apparvero separate alla fine da un ultimo filo spinato, levato come uno schiaffo sull’ultima curva, coi suoi “consigli” su come contrastare l’onda. Provocazione o confessione pubblica? Non importa saperlo. Mi ferì l’insostenibile “naturalezza” con cui la porse. L’immagine che ne ebbi fu che, mentre io ero riuscita a saltare giù da un treno di guerr aancora in corsa, sia pure con imperdonabile ritardo, lui si mostrava ancora insediato al suo locomotore. Per questo credo che le invettive postume, gli insulti e gli esorcismi non siano utili a nessuno. Forse molto meglio sarebbe scendere tutti giù da quel treno.