Luca Telese, il Fatto Quotidiano 25/8/2010, 25 agosto 2010
SOLO VENTINOVE SECONDI CON TOTÒ
Secondo capitolo. “Scusi, come ha detto che si chiama?”. -“Previti, Cesare Previti”. L’avvocato si presenta bene: Giovane, brillante, pieno di idee. Occhi mobili, sicuri, voce roca e strutturata, anche nella marcata cadenza romanòfona. Anni dopo dirà: “Ero missino, come i giovani della borghesia romana, ma anche liberale”. Peccato che tra i giovani liberali, non se lo ricordi nessuno.
Lo studio dell’avvocato è quello del padre Umberto: forte, prestigioso, ben avviato. Ed è questa credenziale che Previti esibisce agli occhi della marchesina. Annamaria Casati Stampa. Lei, ancora minorenne - appena diventata orfana dopo una vita passata nella bambagia di un cognome importante - ora ha un legale, un giovane avvocato: l’attende una causa drammatica che deciderà della sua vita futura (e soprattutto della sua ricchezza).
Già, perché nelle disposizioni testamentarie di Camillo, quando si sono aperte le buste, è uscito fuori il colpo di scena: “Nomino mia erede universale mia moglie Anna Fallarino, che mi ha reso felice tutti gli anni in cui mi è stata vicina, e che ho sposato in Chiesa il 21 giugno del 1961. A mia figlia Annamaria, di Letizia Izzo, spetterà la legittima con in più l’assicurazione di cento milioni e il quadro raffigurante il bambino”. La “legittima” e un quadro, per lei, equivalgono a un piatto di spiccioli. L’eredità universale, per Anna, rischia di portare verso altri lidi un fiume di ricchezze e di beni senza pari in Italia. In queste poche righe c’è una traiettoria che, collegata alla traccia disegnata dai tre corpi di via Puccini, suscita un micidiale cortocircuito. L’avvocato Previti lo sa bene. Perché se il marchese fosse morto prima della Marchesa, l’eredità Casati Stampa avrebbe dovuto passare a lei. E alla sua morte, cioé quasi nello stesso momento alla sua famiglia, i Fallarino. Se invece la marchesa fosse morta prima del marito, lui sarebbe diventato erede dei suoi beni – cioè nulla – e, alla sua morte, a sua figlia Annamaria erede unica e diretta di tutto il patrimonio. Fatto curioso: l’avvocato della famiglia Fallarino è Umberto Previti, padre di Cesare. Sul fondale di una causa ereditaria, nasce un processo che è anche parafrasi di uno scontro di classe clamoroso, nell’Italia uscita dal valzer sociale del boom economico: da un lato la famiglia povera e acquisita, che reclama ricchezza; dall’altro la minorenne blasonata che difende la sua condizione sociale. Poi i parenti di Amorosi: l’ultraprovincia, chiacchiere di paese, le zie zitelle che hanno sempre invidiato ad Anna la sua ascesa sociale e che ora potrebbero beneficiarne. La rabbia dei parvenue contro l’eleganza esangue della decadenza. In mezzo due avvocati che fanno capo allo stesso studio legale, e una manciata di secondi che dividono l’agonia del cadavere rimasto inchiodato dalla fucilata alla poltrona, da quello ritrovato vicino al fucile. La disputa sui tempi di decesso di Camillino e di Anna, dopotutto è l’ultimo rituale di inseguimento di una lunga relazione erotica.
Terzo capitolo
ANTONIO DE CURTIS detto Totò, nel film ha un ciuffo, e il suo solito tono scanzonato. La modulazione della voce è quella inconfondibiledisempre,conl’ironiaaffilata che fa sempre capolino nella giostra dell’apparente nonsense, l’eterno gusto per il calembour e il gioco di parole. Il ciuffo no, il ciuffo è un’acconciatura di scena. Se ci fate caso, in ogni film, Totò era sempre uguale a se stesso in tutto, e sempre diverso, in almeno un dettaglio. Il kepì di “Totò le moko”, il vestito scuro e gli occhiali da iettatore ne “La patente”, le maschere grottesche di Totò diabolicus, per non dire dell’indimenticabile combinazione di saio e zazzera, quasi una incarnazione crepuscolare in “Uccellacci e uccellini”. E poi, quel ciuffo eccessivo e posticcio, il ciuffo di Totò Tarzan. La scena in cui Anna Fallarino fa la sua prima ed ultima apparizione nella storia del cinema italiano, avrebbe potuto invece essere,comepertantealtrestelline,il primo passo di una lunga carriera. Nella versione definitiva del film dura in tutto ventinove secondi, quasi trenta. Anna all’epoca ha solo ventuno anni. Per lei anche una scena di ventinove secondi in un film che sbanca al botteghino potrebbe essere il punto di partenza di una piccola scalataalcielo.Sesoloquellascena si fosse chiusa in un altro modo, Anna non sarebbe mai diventata la marchesa Casati Stampa. Magari non avrebbe sfondato definitivamente, magari non sarebbe diventata una nuova Loren, maintantoancoraviva.Invece,la bussola del destino l’ha portata in un’altra direzione.
La scena da ventinove secondi che (non) ha cambiato la sua vita è una sequenza breve, una strisciata di bianco e nero un po’ virato che se ne vola via sullo schermo, graffi intermittenti a dare il senso del tempo. L’anno è il 1950. La regìa è di Mario Mattoli, Totò passa il tempo in una roulotte-camerino, corre voce che dongiovanneggi, fra un ciack e l’altro.
In quella scena, invece, con una sproporzionata camiciona coloniale e un fazzoletto appariscente al collo, irrompe nell’inquadratura esiritrovaattorniatodaunplotone di belle ragazze. Grida giocoso: “A chi tocca?”.
Tutte le fanciulle ridono. Totò fa la conta, ìlare come un satiro innocente:“Toc-capre-ci-sa-me-ntea… te! Come ti chiami?”. É a questo punto che dal fondo del gruppo, Totò estrae, tirandola per il braccio, una ragazzona con i capelli brunievaporosi,elatrascinainprimo piano, davanti alla cinepresa. É vestita da reginetta, con un bikini periparametridell’epocastrepitosamente succinto, e una coroncina di fiori che le incorona l’ovale. É Anna Fallarino.
Totò: “Come ti chiami?”.
“Ranocchia!”, risponde lei.
Comesonostraneletraiettoriedellevitequandocominciaacorrereil cronometro del destino, ventinove secondi sono una misura elastica e imponderabile. Totò risponde alla sua maniera. Geniale, imponderabile, con uno dei suoi gorgheggi intraducibili: A-hhh, Uh-uh-uh. Onomatopee, ritmo, comicità intraducibile e ancestrale. E poi, accade che il tempo si infila nel varco del destino nel modo più imponderabile. E poi, in mezzo ai puntini sospensivi di quella domanda che era rimasta appesa, Totò infila persino uno di quei gesti che, fatto da chiunque altro sembrerebbero osceni. Agita una manochevaecheviene,mimandoun pompaggio nell’aria. No, a dire il vero non sembra: è un gesto osceno. Ma è anche un gesto di Totò. Ventinovesecondiintuttochecorrono sulla celluloide, adesso sono già quindici.
“Uh-uh-uh… Senti Ranocchia, andiamo a fare un…. Girino?”. Anna gli sorride, gli va incontro. Lui si scatena in una gag di sguardi e sorrisi, un’esplosione di sensualità comica. Ma questo accade sul set. Pellicola scomparsa e perduta. Nel film invece c’è, quasi impercettibile da cogliere un taglio di montaggio: la scena cambia. Adesso, nell’ultima manciata di secondi cheilcapricciodelregistalehanno concesso, Anna e Totò sono raggiunti da un finto intervistatore che fa una domanda sciocca al protagonista: “Senta Totò tartan, non vorrebbe fare un urletto al microfono?”.
VENTINOVE SECONDI,
quasi ventisette. Anna in questo cambio di scena è ritornata una comparsa, uno spettro. Assiste allo scambio di battute, sorride, ma è sulle spine, e si vede. É convinta di aver perso il suo momento, lo avverte fisicamente. Il cronista chiede a Totò: “Ci può dire qualcosa?”. E lui: “Qualcosa?”.
“Cosa pensa della civiltà?”.
A quel punto Totò si illumina. Fa una faccia delle sue, mima una pernacchia, Prrrr….
Ventinovesimo secondo, Anna sta uscendo dalla storia del cinema. Fa in tempo a dire: Oh-oh!”. Ed è qui che Totò, con il suo indecifrabile istinto comico, e con il suo innato istinto ritmico chiude il siparietto: “Preferisco la iiungla!”.Non dice Giungla, Totò, ma proprio iiiungla, con la “I”. La scrivi così e sembra solo una fesseria, lo dice lui e ti fa subito ridere. Perché la magia del cinema è quella. E anche il talento è un’equazione segreta che tiene insieme spazio, suono e tempo.
Anna quella scena è andata a rivederla tante volte, negli anni, ogni voltachehannoripassatoilfilmnelle sale, seduta in fondo, nascosta dietrounfoulardegrandiocchialida sole. Ventuno anni aveva allora, adessonehaquaranta,mainmezzo ci sono sempre ventinove secondi. Ogni volta che vede quel fotogramma correre sul grande schermo, si infila nella stessa catena di “Se”. Se Totònonfossestatotagliatoinmontaggio per la sua meravigliosa sconcezza, avrebbero sicuramente dovuto lasciare in campo il suo sorriso, e chissà: era un sorriso così luminoso,nesentivaancoradentrodi sé il riverbero, come può capitare delleemozionichesivivonoconintensità irrevocabile.
SE AVESSE fatto carriera non avrebbe dovuto acconciarsi all’idea di recitare in un palcoscenico domestico due vite di moglie che non le appartenevano, la primaconPeppinoDrommi,ingegnere. La seconda con Camillo Casati Stampa, marchese. Il suo grande esordionelcinema,l’appuntamento con la storia finiscono lì, ventinove interminabili secondi che ti ricordi per tutta la vita. Lei era esplosa di luce per la meravigliosa sconcezza di Totò, ma quel lampo era stato tagliato, insieme al suo presupposto giullaresco, perché i tempi del costume, nel 1950, non sono maturi nemmeno per una boccaccia decurtisiana. Così, nel luogo esatto dove altri con un fotogramma iniziano una carriera, lei la finisce. Ci ha ripensato mille volte, Anna, a quel ciak. Lei le battute sul copione le aveva, trenta parole per farsi largo sul palcoscenico della vita. Ma Totò era esploso in quel numeroirresistibile.“Ungirino,ungirinetto…”. Sottinteso gioco erotico. Lei rideva, lui continuava. Solo in quel momento, solo per lei. E cosìiltalentodiTotòavevaincontrato le forbici pruriginose dei censori. La carriera di Anna era finita anche per una piccola pruriginosa censura: la fama che nel 1970, da morta, l’avrebbe portata nuda su tutti i rotocalchi nazionali, avrebbe cambiato il corso della storia per tutte, dopo di lei. Quella fama erotica, esplosiva, iconografica, travolgente,oscena,avrebbeprodottolafine della censura più pruriginosa, spostato in avanti la linea della sostenibilità e del comune senso del pudore.