Luca Telese, il Fatto Quotidiano 25/8/2010, 25 agosto 2010
NICCOLAI FASCISTA RISORTO
Era dimenticato, adesso potrebbe tornare improvvisamente conteso. Ci sono voluti il grande terremoto di una scissione a destra e di una rinnovata disputa culturale sulle identità perché il suo nome ritornasse a galla, uscisse dalla nicchia di un culto di eletti, per diventare di nuovo oggetto di contesa politico-culturale. Fino a ieri, infatti, Beppe Niccolai, ex dirigente del Msi era un leader dimenticato. Ricordato soprattutto da un intellettuale (altrettanto irregolare) di destra che non ha mai smesso di rivendi-carne l’eredità, Pietrangelo Buttafuoco. Ma snobbato da tutti i cultori degli anniversari e dei convegni à la page.
Il motivo era semplice: pisano, passionale, carismatico, figlio della generazione degli anni venti, Niccolai era troppo scomodo e troppo contemporaneo per entrare nel vecchio Pantheon missino, e troppo missino per entrare in quello di An. Troppo fascista, (sia pure cultore di un “fascismo impossibile”, secondo Buttafuoco) per poter essere sdoganato dalla cultura democratica. L’unico intellettuale a regalargli una apertura di credito, dopo averlo incontrato nel percorso lineare della destra antimafia, fu Leonardo Sciascia che, in una intervista alla televisione francese disse: “La sua relazione in commissione antimafia è una cosa seria”.
MA PROPRIO su di lui, che era il più eretico dei missini, pesava il lutto di una morte terribile e drammatica degli anni di piombo. Quella dell’anarchico Franco Serantini, ucciso dalla polizia nel 1972 durante una manifestazione di Lotta Continua che contestava proprio un suo comizio. Era stata l’animatore di una testata vivacissima, l’Eco di Versilia. E raccontava ai suoi discepoli che Benito Mussolini, a Salò, aveva lasciato un curiosissimo lascito testamentario: “Se crolla il fascismo, aderite ai socialisti di Pietro Nenni”. Una frase più che verosimile, visto il rapporto tempestoso fra il padre del Psi e il Duce.
IN REALTÀ, a ben vedere, Niccolai potrebbe essere considerato il primo postfascista della storia italiana, e proprio questo potrebbe rendere allettante la sua eredità per i due tronconi nati dalle ceneri di An, quello destra pidiellina, e quella della destra finiana e della fondazione Farefuturo. Niccolai entrò negli annali della politica per una beffa clamorosa, nei partiti assai seriosi della prima repubblica. Nel 1988 il dirigente missino ebbe un’idea provocatoria e geniale. Sottoporre al voto del parlamentino della Fiamma un documento contro i potentati economici e le oligarchie. La lingua del documento era raffinata e dura, elegantemente anticapitalista: i dirigenti del Msi aderirono entusiasti e lo approvarono. A quel punto Niccolai svelò la beffa: si trattava di un documento di politica economica del partito comunista italiano. Per lui arrivarono provvedimenti disciplinari, ovviamente, ma intanto il gioco era fatto: dimostrare che malgrado le apparenze e i proclami di inimicizia, la destra e la sinistra avevano molte affinità. L’episodio, rivelato a freddo da Francesco Merlo sul Corriere della sera, non gli procurò molte simpatie nel partito.
Era quel tipo di uomo di destra legato ad un galateo aristocratico. Molto lontano dalle tentazioni populiste e Vandeane. Ha scritto Buttafuoco: “Odiava la «pesca delle occasioni», non avrebbe mai cavalcato la «protesta del popolo delle tasse», la «guerra dei tassinari», la «sollevazione dei bottegai»”. Ma esisteva spazio per una destra così, in Italia? Nel 1988, con un’altra delle sue sorprendenti provocazioni, Niccolai scrisse una lunga lettera al Secolo d’Italia per sostenere l’innocenza del suo ex nemico acerrimo Adriano Sofri. Era quasi un saggio sull’odio politico, raccontato attraverso la storia di Pisa, una riflessione anche autocritica: “Far fuori l’altro, lo sconosciuto, rosso o nero, rientra nella necessità di mettere a tacere, per sempre. Il nemico, il barbaro, l’altro, a cui è tolto ogni valore, primo fra tutti, quello di essere uomo. Erano quelli – scriveva Niccolai – i tempi in cui le bombe, teleguidate e moderate, aiutavano questo disegno che, se ci si fa caso, ha contrassegnato la storia dell’Italia repubblicana, dalla prima strage di Portella della Ginestra a quelle più recenti”. Concludeva la lettera discutendo l’ipotesi che il commissario Calabresi poteva essere stato ucciso per una rappresaglia per la morte di Serantini, e che in quel caso l’obiettivo migliore avrebbe dovuto essere lui. Ancora una volta eretico, troppo, Il Secolo non pubblicò la lettera, che è apparsa postuma. Peccato, perché la conclusione è ancora attuale, nel parlare di quello che andava salvato degli opposti estremismi: “Trasgressione, eresia, diciamo pure pazzia. Ma l’Italia più bella, quella di ieri e quella da costruire – scriveva – è proprio quella dei pazzi. Primi fra tutti i Santi e gli Eroi. Non quella che sta alla finestra in attesa, a cose fatte, di appendervi gli scalpi di coloro che alla finestra non sono mai stati”. Niccolai fece in tempo a vedere morire il suo grande rivale, Giorgio Almirante, e a non partecipare al suo funerale. Aveva fatto in tempo ad essere prigioniero ad Hertford (dove si rifiutò di imparare l’inglese per scelta ideologica) e morì nel 1989, mentre cadeva il muro, prima che si scongelassero i grandi blocchi ideologici. È curioso capire se oggi il suo nome può essere oggetto di una nuova battaglia culturale.