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 2010  aprile 12 Lunedì calendario

Anno VII - Trecentodiciassettesima settimanaDal 3 al 12 aprile 2010Smolensk Sabato mattina, il Tupolev Tu-154 diretto a Katyn con a bordo il vertice dello Stato polacco – presidente della Repubblica e signora, presidente della Banca polacca, capi di Stato maggiore, ministri e sottosegretari, autorità di tutti i tipi, per un totale di 96 persone – non riusciva ad atterrare all’aeroporto di Smolensk

Anno VII - Trecentodiciassettesima settimana
Dal 3 al 12 aprile 2010

Smolensk Sabato mattina, il Tupolev Tu-154 diretto a Katyn con a bordo il vertice dello Stato polacco – presidente della Repubblica e signora, presidente della Banca polacca, capi di Stato maggiore, ministri e sottosegretari, autorità di tutti i tipi, per un totale di 96 persone – non riusciva ad atterrare all’aeroporto di Smolensk. Una nebbia fittissima impediva di vedere non solo la pista, ma tutto il paesaggio circostante, e per parecchi chilometri. I controllori di volo russi, dopo un primo vano tentativo dell’aereo di scendere a terra, hanno consigliato con forza di dirigersi su Minsk o su Mosca, ad appena 250 chilometri di distanza. I due piloti hanno invece voluto provare ancora: una seconda, una terza, una quarta volta mentre i russi gridavano in cuffia: «Ora basta! Siete pazzi! Raddrizzatevi e andate da un’altra parte!». Al quarto tentativo, l’apparecchio ha toccato con la coda la cima di un gruppo di alberi, e s’è schiantato al suolo. Tutti morti. Mai nella storia una nazione era stata decapitata della sua classe dirigente in questo modo.

Lech È certo che i due piloti sono stati costretti a tentare l’atterraggio su Smolensk dallo stesso presidente della Repubblica, il celebre Lech Kaczynski che, col fratello gemello Jaroslaw, dominava da dieci anni la scena politica polacca. Era già capitato che Kaczynski pretendesse, per ragioni sue, un atterraggio nel luogo previsto nonostante le condizioni del tempo avverse. Stavolta si trattava di rendere omaggio alle vittime della foresta di Katyn, 22 mila militari polacchi fatti ammazzare da Stalin nell’aprile del 1940, e il presidente non voleva mancare l’incontro con i giornalisti, atterrati a Smolensk poco prima senza problemi. . Kaczynski ha certamente proibito ai piloti di andare da un’altra parte, perché aveva bisogno che i media cominciassero subito a riferire il suo discorso sul massacro di Katyn, l’infamia comunista, e il resto. Kaczynski e suo fratello hanno fatto della memoria e del processo implacabile al passato il perno della loro azione politica. Atterrare altrove, e senza i media presenti, sarebbe stato politicamente un errore.

Destra Jaroslaw Kaczynski, il gemello del presidente morto, non si trovava sull’aereo di Smolensk perché la madre s’era ammalata di influenza e i due s’erano messi d’accordo che toccassse a lui restarle accanto per assisterla. Jaroslaw non è più primo ministro dal 2007. Lui e Lech, quando erano al potere insieme, hanno fortemente spinto la Polonia a destra: filoamericani, nemici dichiarati della Russia, hanno accettato entusiasticamente di ospitare lo scudo spaziale di Bush e appoggiato il presidente georgiano Saakashvili nella guerra contro Mosca. Molto poco europeisti, a un certo punto hanno proposto che il voto polacco contasse non per gli abitanti che il Paese ha oggi, ma in base a quelli che avrebbe avuto se la Seconda guerra mondiale non li avesse falcidiati. Il nuovo premier, Donald Tusk (assente anche lui a Smolensk), ha, dopo il 2007, lavorato a riequilibrare un minimo la posizione del suo Paese e recuperato le relazioni con Mosca. Le funzioni di presidente della Repubblica sono in questo momento svolte dal presidente della Camera Bronislaw Komorowski, del movimento Piattaforma civica, e candidato alle presidenziali che, a questo punto, saranno anticipate a giugno (dovevano svolgersi a ottobre). È possibile che a opporglisi sarà proprio il gemello sopravvissuto, Jaroslaw. Prima dell’incidente i sondaggi davano nettamente in testa Komorowski.

Emergency Sabato 10 aprile i servizi di sicurezza hanno arrestato nove dipendenti dell’ospedale Emergency di Lashkar Gab, nello Helmand, uno dei tre centri di cura che Gino Strada ha in Afghanistan. Di questi nove, tre sono italiani: Matteo Dell’Aira (coordinatore medico), Marco Garatti (chirurgo d’urgenza), Matteo Pagani (tecnico della logistica). L’accusa: esser pronti a uccidere, in combutta con i talebani, il governatore della provincia, Gulabuddin Mangal. Nella perquisizione compiuta in ospedale contemporaneamente agli arresti, gli agenti dicono di aver trovato giubbotti esplosivi, granate, fucili. In una stanza c’erano almeno due pistole, nove granate, due cinture esplosive. Il portavoce del governatore sostiene che il dottor Garatti avrebbe anche preso dei soldi dai guerriglieri-terroristi. Gino Strada ha definito le accuse «ridicole» e sostenuto che chiunque avrebbe potuto portare le munizioni in ospedali. Tutta l’operazione ha l’aria di una manovra concordata tra americani, Nato, Isaf e governi italiano e afghano. Stanchi dei continui attacchi di Emergency, questo fronte occidentale avrebbe deciso di sbarazzarsi degli umanitari, indifferente al fatto che dal 1994 a oggi Emergency ha salvato la vita a poco meno di tre milioni di persone. È d’altra parte innegabile che Emergency cura tutti i feriti senza badare alla parte a cui appartengono, ma non è certamente neutrale. Le sue critiche molto violente alle forze d’occupazione trovano sempre, inoltre, larga eco sulla stampa, che Gino Strada cura da sempre con molta meticolosità. Impressionante per freddezza l’atteggiamento italiano. Il ministero ha prima fatto sapere che Emergency «non è riconducibile né direttamente né indirettamente alle attività finanziate dalla Cooperazione italiana». Poi il ministro Frattini ha dichiarato: «Prego che non ci sia nessun italiano che abbia direttamente o indirettamente compiuto atti di questo genere. Lo prego davvero di tutto cuore perché sarebbe una vergogna per l’Italia». Parole con cui si ammette la possibilità che gli arrestati – compresi i tre italiani – non siano innocenti.

Riforme Appena vinte le elezioni regionali, il centro-destra ha ripreso a parlare di riforme. Il leghista Calderoli ha preparato un documento-bozza di 20 pagine e 37 articoli in cui si prevede il senato federale, un’altra riforma del titolo V per aumentare i poteri delle Regioni, il semipresidenzialismo alla francese, il taglio dei parlamentari: 400 alla Camera e 200 al Senato, invece degli attuali 630 e 315. Il semi-presidenzialismo alla francese è quel sistema in cui il capo dello Stato è eletto direttamente dal popolo e nomina il primo ministro. Il risultato è evidente se si considera che tutti conoscono Sarkozy (il capo dello Stato), ma ben pochi saprebbero dire chi è a Parigi il primo ministro (François Fillon). Fini si è già messo di traverso annunciando che non si può introdurre il sempresidenzialismo alla francese senza modificare, alla francese, anche il sistema elettorale (maggioritario con doppio turno). Il maggioritario a doppio turno andrebbe bene anche a Veltroni, purché accompagnato da una norma sul conflitto di interessi, ma non sarebbe accettato da Bersani-D’Alema, che vogliono il sistema tedesco. I leghisti, che mirano a guidare la discussione sulle riforme (ma i finiani non vogliono assolutamente), dicono che il rapporto con Bersani è indispensabile (Maroni), «col Pd trattiamo noi» (Bossi), e così via. Berlusconi intende però tenere nelle sue mani la riforma della giustizia. Che è la solita: carriere dei magistrati separate, i pm trasformati in “avvocati dell’accusa”, due Csm. Napolitano, che ha intanto firmato la legge sul legittimo impedimento, quella che tiene il presidente del consiglio al sicuro dai processi per 18 mesi rinnovabili, auspica che sulla via delle riforme si proceda in un clima di concordia.