Paolo Rumiz, la Repubblica 24/8/2010, 24 agosto 2010
Puntata n.21 - Camicie Rosse (Sotto: indice della rubrica) NELLA SHERWOOD DEL SUD - A Vibo trovo la casella piena, lettere da tutta Italia
Puntata n.21 - Camicie Rosse (Sotto: indice della rubrica) NELLA SHERWOOD DEL SUD - A Vibo trovo la casella piena, lettere da tutta Italia. Il segno - direbbe qualcuno - che sto toccando il culo alla cicala. «La sinistra ormai confonde la camicia rossa con l´armata rossa», lamentano democratici delusi da Ivrea. «Garibaldi assassino!» fanno eco dal Cilento i neoborbonici. Molti segnalano storie, bel materiale con cui potrei fare un viaggio daccapo. Arrivano anche notizie di nuove "garibalderie", ispirate alla scalata sulla ciminiera leghista del Nord. Un rosso kepì sul testone di Vittorio Emanuele a Torino, una "via Garibaldi" di ottavo grado aperta nel Feltrino dal noto alpinista Manolo, una scritta "Viva Garibaldi" vicino ad Anagni, una statua rivestita di rosso ad Asiago. Dateci sotto, ragazzi. Treno infinito per la Puglia. L´Italia è troppo lunga, lamentavano gli Arabi. È vero ancora: lunghissima e ingestibile. Fuori bellezza e sporcizia. Dentro, bambini nefasti. Spiano, disturbano, pretendono. Trent´anni di tv commerciale hanno prodotto una razza di mostri, identica a se stessa da Aosta a Capo Passero. Siamo una nazione, ma nei difetti: me l´avevano detto su un treno del Nord. Discorsi degli adulti: non lavoro ma carriera. Non fede ma ipocrisia. E poi localismo, anarchia, rassegnazione. A bordo funziona solo un cesso su tre. Perché nessuno protesta? Azzardo un teorema: gli evasori non disturbano il manovratore. E poi, lo so, proprio quando credi di documentare solo sfascio, allora l´Italia mostra i suoi miracoli di resistenza. Lo sa anche Davide Ferrario, che segue la traccia di Garibaldi per un documentario sui 150 anni di unità. Al telefono racconta di un´azienda modello a Nova Siri in Basilicata, nata dalla lungimiranza di un medico garibaldino, Pietro Antonio Battifarano. Dopo una vita operosa e di battaglie, costui si fece seppellire in terra sconsacrata sotto un bastione costiero di nome Torre Bollita. Sulla lapide c´è un motto di Benedetto Croce, amico della famiglia. Dice: «Lontano dal dominio dei preti e di fronte alla jonio mare». Un altro bastione è casa Mallardi a San Basilio, sotto Gioia del Colle. Muri enormi, frescura da tomba etrusca; la camicia rossa lavata garrisce su un pennone. Ceniamo a "fagiola" con cipolla rossa di Acquaviva, soppressata, taralli e malvasia calabrese fruttata, che quando la stappi puoi fiutarla a dieci metri in favor di vento. In mezzo al finocchietto, Antonio indica la linea delle gravine, verso Martinafranca e Cisternino, spazio ricco di anfratti che nemmeno i locali conoscono più. È il rifugio del sergente Romano, figura leggendaria della guerriglia post-unitaria nel Sud. È lui, il sergente, che son venuto a cercare. E ora vi spiego perché. Gli è che Francesco Tassone, l´avvocato di Vibo, mi ha regalato un suo libro dal titolo "Carlo Antonio Gastaldi, un operaio biellese brigante dei borboni". Biellese anche l´autore, Gustavo Buratti, che scrive in piemontese - con traduzione a fronte - per un editore calabrese. È la stessa storia intrigante che mi era stata segnalata al Nord. Quella di un soldato sabaudo mandato a reprimere la rivolta del Sud, che nel ´61 diserta e passa ai banditi. Una sua lettera: «questi non sono briganti come vi si dice, sono solo soldati fedeli al loro re Francesco». Antonio mi ruba il libro, legge avidamente le carte del processo ed esulta: «I cognomi degli accusati sembrano l´elenco telefonico di Gioia!». Notte di vento, finestre aperte, vortici in casa. Prima di spegnere la luce scorro un vecchio opuscolo con foto dei briganti ammazzati, esposti come selvaggina a fine battuta. Facce terribili. Carmine Crocco, Vincenzo di Gianni, Nicola Napolitano, Domenico Salvastano. Michelina de Cesare, maliarda in posa con lupara in mano, poi nuda sul tavolo autoptico. Carolina Casale, occhi e capelli da Cheyenne. Dalla finestra vedo la masseria San Domenico. Le sue torrette per i fucilieri sono preesistenti all´unità. Testimoniano che l´annessione non generò ma soltanto esacerbò l´anarchia. Lo scirocco aumenta, e così sogno un donnone di cognome Abbracciavento, evocatomi a cena da Mallardi. L´indomani parto con Diego Eramo, medico di Gioia dai baffetti grigi, coppola ed elegante tenuta in cotone color panna, per cercare la tana del sergente Romano. La Gravina del Vuolo, questo il posto, sta nel bosco delle Pianelle, dove i radar giganteschi della Nato ascoltavano lo sbadiglio del drago comunista. Picchia il sole sul sentiero e già alla masseria della Signora ci chiedono «che ci fate con ´sto caldo, mo´ tra mosche e serpenti...», poi ci offrono ricotta fresca e un po´ di miele. Intorno, vagano mucche podoliche dalle grandi corna longobarde e rocciosi cavalli murgesi, zoccolo largo imbattibile sui sassi. «I piemontesi avevano bestie più veloci - spiega Eramo - che però si azzoppavano su questo terreno». Labirinti di rocce, tafani; al cellulare muore il segnale. Seguiamo una lunga falesia su terreno selvaggio. Qui Romano e i suoi hanno resistito per tre anni, non si sa come abbiano fatto a trovare acqua e cibo. Doveva essere come in Afghanistan: nella macchia la guerriglia, e sulle grandi strade l´esercito comandato di esportar democrazia. I briganti riuscivano a spostarsi per miglia senza esser visti, per emergere dalle gravine al momento giusto e banchettare nei villaggi. Rimugino con il mio uomo-ombra: «Anche qui, è chiaro, il mito non siete voi camicie rosse, ma gli abitatori di questa Sherwood del Sud. Mito anche negativo; ma pur sempre mito, come Annibale». Sbagliamo strada, cicale assordanti, sterco di capre seccato dal sole, poi è finalmente l´antro, aperto come uno sbadiglio sul pendio roccioso. Qui bivaccarono anche in novanta gli uomini di Romano. Ci stavano pure i cavalli. Oggi ci vanno le mucche a prendere il fresco, e per entrare si affonda in mezzo metro di sterco. Tutto è cambiato: al tempo dei briganti l´ingresso era mimetizzato da una cascata di edera, oggi gli incendi hanno denudato lo scalpo della montagna. Risaliamo alla masseria San Domenico, un agglomerato di trulli dove la banda andava a sentir messa e venne sterminata nel sonno dai bersaglieri. Sembra Cappadocia, un mondo rupestre intatto, un viaggio nel tempo. Poi è la masseria Abbondanza, cortile imbiancato e luce intollerabile. Margherita e Alfredo Giunta ci offrono acciughe e fiori di zucca fritti, ciliegie e un liquore di cotogna ambrato. Sento nella campagna una potenza economica perduta. Ripenso alla Sicilia e al Lombardoveneto pieni di targhe tipo «Qui sostò Garibaldi». Qui è altra cosa, hanno appena eretto un monumento al sergente Romano. Ieri pareva non lo volesse nessuno, tanto che l´hanno dovuto mettere decentrato, al confine fra tre comuni. Oggi, che l´Italia non è più di moda, lo cavalcano tutti. Ecco cosa accade a chiudersi nei tabù. Indice della rubrica: 1386028 (n.1) 1386029 (n.2); 1386030 (n.3); 1386031 (n.4); 1386033 (n.5); 1386035 (n.6); 1386036 (n.7); 1386040 (n.8); 1386041 (n.9); 1386038 (n.10); 1386037 (n.11); 1386042 (n.12); 1386039 (n.13); 1386068 (n.14); 1386262 (n.15); 1386262 (n.16); 1386497 (n.17); 1386934 (n.18); 1386957 (n.19); 1387466 (n.20); 1387090 (n.21); 1387252 (n.22)