CRISTINA NADOTTI, la Repubblica 24/8/2010; STEFANO BARTEZZAGHI, la Repubblica 24/8/2010, 24 agosto 2010
2 articoli - L´INGHILTERRA CANCELLA IL MITO DEL THANK YOU - Quel semplice "thank you", la prima espressione con cui tutti iniziano a mettere insieme due parole straniere, non va più bene, non si usa più, non è più da gentleman
2 articoli - L´INGHILTERRA CANCELLA IL MITO DEL THANK YOU - Quel semplice "thank you", la prima espressione con cui tutti iniziano a mettere insieme due parole straniere, non va più bene, non si usa più, non è più da gentleman. Niente "grazie" siamo inglesi. Come se non bastassero i mal di testa da apprendimento di «phrasal verbs», per cui «give» significa «dare» e «give up» vuol dire smettere, chi impara l´inglese deve ora porsi anche il dubbio se non sia meglio, dopo avere fatto una fatica enorme a capire quel che dice il cameriere, rispondere con «cheers» invece che con il familiare «thank you». Fedeli alle regole di una lingua che ha almeno due parole per definire lo stesso oggetto - conseguenza della sovrapposizione dei vocaboli dei conquistatori Normanni su quelli degli Anglo-Sassoni - i discendenti di Geoffrey Chaucer e Shakespeare rispondono a un sondaggio ammettendo che «thank you» è desueto e troppo formale, per cui lo sostituiscono con altre 19 espressioni. La metà degli inglesi che hanno partecipato alla ricerca usa «cheers», espressione intraducibile comune anche per brindare, per rispondere a una gentilezza e per 4 su 10 «thank you» suona meno intimo e amichevole. Nel novero dei «grazie» alla moda ci sono «Ta» - mutuato dal linguaggio infantile - «That´s great», traducibile con «grande, ottimo» e altri termini che vanno dal più articolato «you star», cioè «sei un tesoro», all´imitazione di lingue straniere, con il francese su tutte, vera ossessione degli inglesi quando vogliono apparire eleganti. Il sondaggio capace di quantificare una tendenza è stato condotto da un sito di regali online, con il proposito di verificare se è vero che gli inglesi sono scortesi e hanno dimenticato le regole della buona educazione, tra cui mandare «thank you card», cioè biglietti di ringraziamento. Le risposte in proposito sono impietose, gli inglesi si autoaccusano di non esprimere apprezzamento verso gli altri (84 per cento) e ammettono di non ringraziare chi manda regali via posta (40 per cento). Il declino di «thank you» è, per alcuni, il declino del gentleman. «Cheers» viene spesso abbinato a «mate», «amico», ed è ben diverso da quel «Thank you, Sir» che fa subito venire alla mente gli aristocratici dell´impero vittoriano. E il simbolo, secondo alcuni commentatori inglesi, di una lingua da strada e contatti veloci, piuttosto che da salotto e incontri formali e, si può aggiungere, da email più che da biglietti in carta pregiata vergati con penne stilografiche. Eppure «cheers» ha una storia antica quasi quanto «thank you», che viene attestato a partire dal 1400 e ha radice nella parola «think», pensare, dal ceppo comune alle lingue nordiche. In origine indicava un preciso impegno nei confronti di chi era stato autore di un buon gesto, gli si prometteva di tenerlo nei propri pensieri. Era, insomma, un modo di impegnarsi a restituire la gentilezza codificato nel Middle English dei Canterbury Tales di Chaucer. «Cheers» è invece più recente, viene usato per ringraziare a partire dal XVIII secolo e mutuato dal linguaggio nautico, dove era un grido di incoraggiamento, come è tutt´oggi. Non a caso si incomincia a usare come alternativa a «thank you» proprio quando la borghesia inizia a levare spazi all´aristocrazia, quando i commercianti e gli esploratori salgono sulle navi per andare a colonizzare nuove terre. Chi vuole però trovare una giustificazione più aulica per usare «cheers» può sempre rifarsi all´altro grande padre della lingua inglese. La Tempesta di William Shakespeare si apre proprio con un «What cheer?» interlocutorio del comandante al quartiermastro. Non esprimerà un formale impegno a restituire la gentilezza quanto prima possibile, però è breve e dà allegria. Certo, è un incoraggiamento, come se si chiedesse sempre di più, e in questo è davvero specchio della nostra società. CRISTINA NADOTTI, la Repubblica 24/8/2010 PERCHÉ NON È SOLO UNA FORMULA DI CORTESIA La domanda non è se il boy scout farà attraversare la vecchietta. La farà attraversare senz´altro. I boy scout cambiano meno in fretta delle vecchiette. La domanda è dove lei, in cambio, lo manderà. Che gli dica un buon, vecchio (altrettanto o più vecchio) thank you è infatti improbabile, secondo il sondaggio a dire il vero un po´ troppo artigianale di cui riferisce la stampa inglese. Attesta che per gli inglesi la gloriosa formula «Thank you» è ormai considerata troppo cerimoniale; così viene mediamente sostituita da altre formule o anche da brevi gesti, fatti con una mano o con qualche dito (ben scelto). Molto spesso, in questi casi, si parla di sintesi e di velocità, e già non sono la stessa cosa. Ma se la misura di lunghezza di una formula orale è la sillaba non pare proprio che il semplice bisillabo «thank you» si dilunghi poi tanto. Il fatto è che «thank you», cerimonioso o no, è comunque il modo più breve per raccontare in lingua inglese la stessa piccola storia che in italiano è racchiusa nella sola parola (bisillaba anch´essa) «grazie». C´è un soggetto implicito, si chiama «io», che rende grazie a un altro soggetto, «te». Non è la stessa storia raccontata dalle formule alternative che vogliono dire «evviva», «favoloso» o «fichissimo». Quello che viene meno, in tutti questi altri casi, è innanzitutto lo «you»: la considerazione della persona a cui ci si rivolge. Dicendo «bello!», «che meraviglia!», «fantastico» al massimo si ammette l´altro a godersi lo spettacolo della nostra esultanza. A volerne trarre un ulteriore presagio dell´imminenza dell´Apocalisse ci si dimostrerebbe dell´età mentale giusta per avere bisogno di un boy scout a ogni incrocio. Troppo egoismo, a questo mondo! Lo avrà già pensato Caino, mentre Abele si compiaceva - ancora per poco - della superiorità delle proprie offerte al Creatore. Eppure dietro le variegate (e comuni) intolleranze per i formalismi e per i cerimoniali della vita sociale sembra esserci davvero qualcosa di non solo lessicale, e che eccede di gran lunga gli angusti limiti disciplinari del bon ton: una convinzione profonda dell´insussistenza o comunque della non-necessità dell´Altro. Molte delle scorciatoie dell´informalismo e del disinvoltismo contemporaneo ci portano a questo stesso punto; e per il rispetto, per la vergogna, per la considerazione dell´Altro varrebbe lo stesso discorso che qui vale per la gratitudine. Basta mostrarsi grati o occorre anche dirlo? STEFANO BARTEZZAGHI, la Repubblica 24/8/2010