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 2010  agosto 25 Mercoledì calendario

La guerra dei pomodori

Quei pomodori che non danno più “soddisfazione” - Al bar Juventus di Fiorenzuola d’Arda, distretto padano, serve la piadina una graziosissima ucraina. Può davvero cominciare così questo viaggio nella globalizzazione che ha travolto il triangolo d’oro del pomodoro italiano. Pressato dalla maxi-produzione cinese che sta abbattendo quotazioni e regole, costringendo tutti, almeno qui, in questa pianura piacentina assolata e afosa, a stringere la cinghia. E’ tempo di raccolta, adesso. «Abbiamo cominciato a metà aprile, andiamo avanti sino ai primi di ottobre. Ma quest’anno è nato male e finirà peggio» dice Fabrizio Portapuglia, 70 mila quintali di «frutti rossi» l’anno con la sua azienda, Torre Gazzola. Lui è uno di quegli agricoltori, tanti, sempre di più, che hanno perso la voglia. «Che senso ha continuare a coltivare senza alcuna soddisfazione?». Per soddisfazione si deve leggere guadagno. «Resistiamo per tenere in piedi la filiera. Ma capirà...». La filiera, appunto. Comincia da qui, il cammino tutto in salita ormai del pomodoro padano. La raccoglitrice coglie il risultato dei cento giorni di maturazione, i frutti finiscono nel rimorchio. Stop. «Ho speso per i semi e la piantina, germogliata in vivaio. Per concime, fitosanitari, acqua, assicurazioni. E i mezzi, il personale per la raccolta. Tutti soldi anticipati». Quanto fa? «Il raccolto standard è di 650 quintali di pomodori per ettaro e costa 3.500-4.000 euro». Il cammino del pomodoro prosegue. L’industria ci mette il trasporto dai campi alla fabbrica. Finalmente arrivati? No, perché c’è ancora da calcolare il passaggio dell’intermediazione delle associazioni interprofessionali, che trattano direttamente con gli industriali. Ci va una commissione. «Si aggira sui 30 cent a quintale». Ecco, adesso siamo davvero giunti davanti ai cancelli dell’industria. Quanto paga? Siamo sui 4.000 euro per quei 650 quintali di partenza. «Così chiudi in pari, ma se il raccolto è minore, come quest’anno, vai sotto. Per guadagnare qualcosa devi aumentare la produzione per ettaro, ma s’incrementano anche i costi». Sessanta, settanta euro per tonnellata. Questa la forbice, a seconda della qualità, del prezzo d’acquisto alla fabbrica. «Dobbiamo tutti stringere la cinghia, per difendere la filiera italiana. Ma lo sapevamo» dice Marcello Mutti, 110 anni di impresa e 140 milioni di fatturato, a Basilicanova, che è già sotto Parma. Ci siamo spostati soltanto di una cinquantina di chilometri dai campi di Fiorenzuola. Qui è nata la polpa di pomodoro, un segreto che è tenuto ancora sotto chiave. Qui arrivano cento camion al giorno carichi di pomodori italiani, padani ed escono 60 milioni di scatole di polpa da mezzo chilo l’anno... «Nel Nord Italia valgono ancora regole, etica. Trattiamo con le associazioni dei produttori sapendo di essere tutti sulla stessa barca», spiega l’imprenditore. «E’ inutile voler combattere contro i cinesi, che controllano il mercato e dirottano le quotazioni a colpi di maxi-produzioni: 76 milioni di chili di pomodori prevedono quest’anno. Noi dobbiamo soltanto aspettare il momento in cui i problemi dello sviluppo aggrediranno anche loro, costringendoli ad alzare i prezzi. E nel frattempo, sopravvivere, puntando sulla qualità. Certo, se poi l’Ue risolvesse la questione del “made in”, tutelando le produzioni nazionali, debitamente tracciate, non ci dispiacerebbe». Scusi Mutti, ma chi usa in Italia il pomodoro semilavorato cinese? «Nel Sud prima si acquistava in Grecia, ora in Cina, per poi esportare oltre i confini comunitari...».