DOMENICO QUIRICO, La Stampa 25/8/2010, pagina 8, 25 agosto 2010
I miliziani islamici colpiscono il cuore di Mogadiscio - Per attaccare gli «shebab», i taleban d’Africa hanno atteso che fosse al suo culmine il ramadam, il mese sacro che esalta lo zelo nella meditazione e nella azione, lo sforzo su di sé e in sé, quando il Jihad prende davvero il significato di «guerra santa»
I miliziani islamici colpiscono il cuore di Mogadiscio - Per attaccare gli «shebab», i taleban d’Africa hanno atteso che fosse al suo culmine il ramadam, il mese sacro che esalta lo zelo nella meditazione e nella azione, lo sforzo su di sé e in sé, quando il Jihad prende davvero il significato di «guerra santa». I due kamikaze erano vestiti con le divise dello sbrindellato esercito regolare somalo; quando sono comparsi davanti all’hotel Muna nessuno ha prestato loro attenzione, neppure i soldati veri che erano di guardia. L’albergo è uno dei pochi edifici di Mogadiscio, devastata da decenni di guerra civile e fanatica, a essere stato restaurato. Tre piani si incontrano ministri, parlamentari, funzionari, giornalisti, e dove vivono gli alti ufficiali del contingente africano che fa da stampella al governo artigliato dagli islamisti. Villa Somalia, il palazzo del presidente è a breve distanza, questo è uno dei pochi quartieri giudicati «sicuri». Anche se ieri mattina il cannone rombava ovunque, per quella che sembra la offensiva finale degli islamisti contro «gli invasori cristiani e il governo di apostati». I due finti soldati sono entrati nell’atrio e hanno iniziato a scaricare i caricatori su tutte le persone che lo affollavano, poi hanno aperto tutte le porte lanciando granate. Nessuno ha cercato di reagire, solo urla, gente in fuga: qualcuno si è salvato gettandosi dalle finestre. Poi sono saliti sulla terrazza e hanno aperto il fuoco sulle forze di sicurezza che, nel caos, avevano circondato l’albergo. Un soldato ha raccontato il capitolo finale della tragedia, il martirio. Uno dei due miliziani ha forse esitato. È stato il compagno a ucciderlo, poi urlando «Dio è grande» ha fatto esplodere la sua cintura esplosiva. Poi si è cominciato a contare i morti: 32, sei sono parlamentari e quattro alti funzionari del governo. Gli altri clienti e dipendenti dell’albergo. Una sfida brutale, arrogante: per dimostrare che a Mogadiscio ormai nessuno è al sicuro da questa macchina di morte, nonostante i seimila uomini della armata dell’Unione africana, versione povera dei Caschi blu. Le milizie legate ad Al Qaeda si sono gettate all’assalto degli ultimi bastioni, controllati dalle forze ugandesi e ruandesi: palazzi governativi, porto, aeroporto e strada che lo collega alla città. Il mercato di Baraka, vitale per il rifornimento della popolazione, era chiuso, sotto i colpi dei mortai e dei carri ugandesi che rispondevano all’artiglieria degli insorti. I morti sono già decine, gli ospedali ingombri di feriti. In maggioranza poveracci, civili rimasti incastrati tra i combattimenti. Sono i soldati dell’Amisom che si battono contro gli shebab, quelli somali sono demoralizzati e di fedeltà incerta. La maggior parte delle armi che vengono loro distribuite sono vendute agli islamisti. L’inizio dell’offensiva è collegata all’annuncio del prossimo arrivo di nuovi soldati africani, duemila, deciso al vertice dell’Unione africana. Gli shebab hanno fretta; anche se poco efficiente, l’armata africana rischia di diventare troppo robusta. Dalla Mauritania al Mar Rosso, attraverso il Maghreb, Al Qaeda è passata all’attacco. E rischia di vincere. Perché ha di fronte governi deboli, marci per la corruzione, detestati da popolazioni miserande. Gli Stati Uniti dell’era Bush che avevano promesso uomini e armi per questo, sono diventati gli esitanti e distratti alleati dell’era Obama. Sono i capi di stato dell’Africa australe che si sentono in prima linea: bisogna cacciare i terroristi dall’Africa, come ha detto l’ugandese Museveni. Per questo hanno deciso di lanciare nella mischia nuove truppe. Ma arriveranno in tempo? E basteranno?