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 2010  agosto 25 Mercoledì calendario

«PERSI MIO PADRE E NON SOFFRII. LO AVEVO DELUSO» - «Sì

qualcosa da raccontare ce l’ho, qualcosa di molto personale, che ancora produce in me un senso di doveroso senso di colpa, di comprensibile imbarazzo. Si tratta di un evento terribile riguardante la nostra adolescenza: mia, di mia sorella Mariella e di Antonio». Pupi Avati, al telefono, ha il tono gentile e sbrigativo di chi ha preso una decisione non facile e ora vuole metterla in pratica. «Mi richiami tra una ventina di minuti, facciamola subito "sta cosa.."». Una ventina di minuti dopo, la voce del regista spazia come una macchina da presa su un passato lontano 60 anni: intimo e atroce. La morte improvvisa e violenta di un padre a 41 anni. E la reazione di un figlio che da una vita si domanda, in un impasto di curiosità e rimorso: «Perché non ho sofferto in quel momento?». Storia di premonizioni e incroci del destino, che lasciamo raccontare, senza intrusioni, al protagonista. «Il 10 agosto 1950, mio padre Angelo e la nonna materna Francesca persero la vita in un incidente stradale mentre, da Bologna, stavano raggiungendo Rimini per trascorrere il Ferragosto con mia madre Ines e noi bambini. Io avevo 12 anni, mia sorella Mariella 8, Antonio appena 4. Avvenne alle 6 del pomeriggio, a Sant’Arcangelo di Romagna, ma noi non lo venimmo a sapere subito...». Avati si interrom-pe, come a un bivio della memoria: «Deve sapere che mia madre, sin da piccola, è sempre stata molto toccata dalle poesie di Giovanni Pascoli, al punto che, quando le leggeva a noi bambini perché le imparassimo a memoria, si commuoveva fino alle lacrime. E noi, per prenderla in giro, spesso ci divertivamo a ripetergliele ottenendo da lei un pianto irrefrenabile». Le poesie del Pascoli che più la turbavano erano quelle sulla perdita del padre del poeta ( La cavallina storna, San Lorenzo), evocatrici della morte di Ruggero, ucciso da un killer senza volto mentre rientrava a San Mauro di Romagna la sera del 10 agosto, la sera di San Lorenzo. Il ricordo di Avati torna sulla via maestra: «Ci doveva essere una premonizione in mia madre, qualcosa di difficile da spiegare con la ragione. Anche mio padre infatti morì il 10 agosto, il giorno di San Lorenzo, e in quella stessa curva, a Sant’Arcangelo di Romagna, dove venne ucciso il padre di Pascoli...». Altra coincidenza. Il poeta, all’epoca, aveva 12 anni: come Pupi. Invano, quella sera, la famiglia Avati aspettò il rientro del genitore: «Ma non ci preoccupammo e andammo a letto. Mia madre raccontò poi che, quella notte, sentì scricchiolare la ghiaia nel giardino della villetta, come un rumore di passi...». All’alba la notizia: «Ho due ricordi: l’urlo disperato e disumano di mia madre e l’accensione in contemporanea di tutte le luci della casa, come se obbedissero ad un unico interruttore…». E qui, come dice il regista, «comincia la parte imbarazzante». «Ero già un ragazzino, eppure ricordo di non aver percepito la situazione, di non aver sofferto come avrei dovuto. O meglio, la mia era una sofferenza di riflesso, vedendo la disperazione di mia madre, ma senza capire da quale tragedia eravamo stati travolti». Il giorno dopo, Pupi e i suoi fratelli furono portati in spiaggia: «Ci guardavano tutti, eravamo al centro dell’attenzione. Incidenti così gravi erano rari a quel tempo: la notizia finì in prima pagina sul Resto del Carlino. Ci sentivamo famosi, lusingati. Addirittura Roberta, una dodicenne di cui ero innamorato e che non mi aveva mai degnato di uno sguardo, quel giorno si avvicinò e mi diede un piccolo bacio. Per dire che approfittai addirittura della situazione...». Sensi di colpa? Più che altro, domande. Tante. «Perché non ho sofferto? Che tipo di rapporto avevo con la figura paterna?». E tentativi di risposta. «La prima percezione è quella di non essere quel primogenito che mio padre si aspettava di avere. Forse addirittura di averlo deluso. Lui era un uomo di grande fascino: colto, elegante, antiquario di professione e con la passione per la musica, un conquistatore. Io ero imbranato, impacciato, timidissimo. Ho sempre avuto la sensazione che lui vedesse in me il ramo della famiglia di mia madre: più semplice, umile, contadina. Questo ha fatto sì che il livello di intimità tra noi fosse molto ridotto. Non solo, ma penso che il confronto con mio padre origini anche la mia tendenza, tipica di molte persone non belle, a dare grande importanza all’estetica...». Nostalgia di un padre. «Soprattutto in questi anni sento l’assenza di una figura paterna: qualcuno a cui raccontare la tua giornata, con la sobrietà tipica dei rapporti tra maschi...». Non per prendersi una rivincita, ma solo per colmare dei vuoti, una distanza. «Ricordo che due mesi prima di morire, mio padre andò con due amici a Cinecittà con l’idea di investire i loro risparmi nella produzione di un film. Intravidero Totò, tornarono a Bologna eccitatissimi. Ecco, gli potrei ad esempio dire che di film io ne ho fatti più di quaranta. O che spesso mi è capitato, mentre giravo delle scene a Bologna, di cercare il suo volto nella folla dei curiosi... Forse per trovare finalmente il coraggio di confessargli che mi manca moltissimo».
Francesco Alberti