Massimo Gaggi, Corriere della Sera 25/08/2010, 25 agosto 2010
SE WALL STREET CUCINA ITALIANO —
«Due ragazzi, freschi di laurea in scienza delle comunicazioni, sono venuti da me a Torino. Chiedevano lavoro. Gli ho detto: qui non ho niente, ma sto aprendo un grande complesso a New York. Emporio dell’alta qualità alimentare e sette ristoranti. Mi serve qualcuno che sappia fare la mozzarella a mano. Se imparate, il posto è vostro. Sono partiti di corsa: li ho mandati ad Andria, sono lì da due mesi».
Arriveranno a Manhattan, in quello che è ancora un grande cantiere della ristorazione italiana sulla Fifth Avenue, alla vigilia dell’inaugurazione di Eataly USA, il 31 agosto: uno sterminato locale di 6.000 metri quadri proprio di fronte al Flatiron, storico grattacielo di inizio novecento, che Oscar Farinetti, senza preoccuparsi troppo di apparire modesto, dice che sarà «il luogo più importante della ristorazione italiana nel mondo». Un’impresa che l’imprenditore piemontese, famoso soprattutto come creatore della catena dell’elettronica Unieuro, ha lanciato a New York (sulla scia degli Eataly italiani e giapponesi) insieme ai più grandi chef italiani d’America, Batali e Bastianich, e ai fratelli Saper, due giovani imprenditori ebrei newyorchesi che hanno abbandonato Wall Street per amore del cibo.
Sarà una vera «fabbrica del gusto» con 300 dipendenti, 600 posti a sedere nei vari ristoranti «tematici», ma anche scaffali pieni di cibi freschissimi e di alta qualità, un angolo per i libri di gastronomia curato dalla Rizzoli, una birreria con tanto di alambicchi di rame sul terrazzo, in cima all’edificio, una scuola di cucina.
Il tutto con l’idea di attrarre milioni di clienti, letteralmente: «Almeno 4 milioni l’anno, forse 6» spara Farinetti. «Le sembro un visionario? Beh, Eataly di Torino ha due milioni e mezzo di visitatori l’anno. E Torino ha un milione di abitanti. New York ne ha otto. Più 45 milioni di turisti, 500mila dei quali italiani. È la città più visitata al mondo, Parigi è lontana seconda con 23 milioni. Dice che esagero?».
Chissà se i clienti arriveranno davvero a milioni. Sicuramente, per ora, arrivano a centinaia, le persone che si propongono per un’assunzione. Non solo cuochi, camerieri o commessi. Sono molti anche i professionisti di Wall Street, analisti e broker, gli agenti immobiliari, le giovani promesse degli studi legali che, stufi delle loro carriere e affascinati dalla cultura enogastronomica, chiedono di lavorare a Eataly.
Adam S a pe r , c he f i no a qualche tempo fa era analista a JP Morgan e che ora farà il direttore del complesso dei negozi alimentari, passa gran parte della giornata ad esaminare i candidati, insieme alla direttrice delle risorse umane, Jessica Garcia, anche lei appena arrivata dal settore finanziario: «L’assistente di Lidia Bastianich nella scuola di cucina — racconta Adam — sarà una ragazza che si è licenziata da Merrill Lynch per venire da noi. Ma ce ne sono tanti altri: arrivano dagli "hedge fund", da Morgan Stanley, da BlackRock. Qualcuno ha perso il lavoro ma tanti lo hanno. Accettano di essere pagati di meno per fare un’esperienza nuova». C’è l’ingegnere geotecnico con la passione per l’agricoltura organica e il programmatore di videogiochi esperto di vini. «Si propongono per le mansioni più diverse, da capo degli acquisti nei mercati a gestore del sistema delle casse». Un mestiere non semplice, spiega Farinetti: «Ne avremo 13 nell’emporio più altre 20 in ristoranti, bar e gli altri luoghi per spuntini».
Per incassare quanto? «Abbiamo fatto tre "budget": uno prudente, quello che io chiamo del manager paraculo, tieni le previsioni basse per incassare più "bonus". È di 40 milioni di dollari l’anno. Ma noi, realisticamente, pensiamo di poter arrivare a vendite tra i 55 e i 60 milioni. Poi c’è lo scenario più ambizioso: 80 milioni».
L’investimento è da medio impianto industriale: 25 milioni di dollari. Eataly ha fatto le cose in grande, a cominciare da tre forni a legna per il pane e la pizza fatti arrivare dall’Italia e dalla Spagna. E pizzaioli ? Anche quelli di Wall Street? «No, no, sono sei, espertissimi, vengono tutti da Napoli. Ce li mandano gli amici di Rossopomodoro. E gli "chef" sono tutti di grande livello, selezionati dai Bastianich e da Mario Batali, che ha la supervisione sulle cucine e dirigerà "Manzo", il ristorante di carne, quello più formale».
Il locale è ancora un caotico cantiere, ma già si distinguono nei 5000 metri a livello della strada, l’area riservata al pesce, quella nella quale verrà prodotta pasta fresca, fatta a mano davanti ai clienti, la cioccolateria con tanto di cascata, la pasticceria affidata a Luca Montersino e poi, ovunque, scaffali con prodotti e marchi di qualità e cartelloni che spiegano come si è riusciti a riprodurre la razza bovina piemontese nel Montana, o l’importanza della trafilatura a rame per fare la pasta.
Grande affabulatore, Farinetti si lancia nella sua teoria dei «contrasti apparenti»: vogliamo essere al tempo stesso informali e autorevoli, autoironici e orgogliosi, onesti e furbi. Ecco, la furbizia non gli manca di certo: mentre presenta la sua iniziativa col vessillo del mangiar sano («50 per cento di sale e zucchero in meno rispetto all’alimentazione Usa, e, nonostante ciò, più sapore») fa il censimento delle aziende con dipendenti a reddito medio alto che hanno sede in zona: «Tiffany, Credit Suisse, società di pubblicità: 15 mila clienti potenziali in un raggio di appena 200 metri».
Massimo Gaggi